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martedì 15 dicembre 2015

ARRIVA BABBO NATALE

Ron…Ron…con il pancione all’aria  Babbo Natale sta russando, è stanchissimo, da giorni sta lavorando da mattina a sera per caricare sulla sua scintillante slitta tanti giochi da portare ai bambini buoni.  Si è buttato sul letto ed è piombato  in un sonno profondo

I vetri della stanza tremano a ogni suo rumoroso respiro.

  E’ l’alba, nella casetta affondata nella neve, entra trafelato l’elfo Tolky:

«Svegliati, siamo in ritardo, non c’è tempo per dormire», esclama scuotendo il grande vecchio.

«Che ore sono? Già le cinque?», risponde lui stirandosi nel lettone.

«Abbiamo tante cose da fare: c’è ancora qualche regalo da impacchettare, e alcune letterine da leggere», dice l’elfo mentre l’aiuta a infilarsi le bragone rosse.

Babbo Natale si alza e guarda fuori: la neve sta scendendo fitta, tutto è bianco, immacolato, gli abeti hanno le cime incappucciate.

«Brr…che freddo», esclama. Esce e tuffa le mani nella neve fresca, ne prende un po’ e si lava il viso, la lunga barba si irrigidisce per il gelo.                                                                                                                                                          

 «Andiamo prima nella stalla a dare da mangiare alle renne», dice avviandosi per il sentiero, ad ogni passo gli stivali affondano nella coltre bianca.

Sdraiate sulla paglia le nove renne (che nella notte della Vigilia attraversano il cielo trainando la slitta dei doni) aspettano come ogni giorno la visita del loro padrone.

«Come state amiche mie?», chiede Babbo Natale mentre riempie le mangiatoie. Le renne lo guardano con occhi sofferenti e nessuna si muove.

«Non avete fame? Forza, alzatevi, fra poco ci aspetta un lungo viaggio», esclama lui mentre si avvicina a Freccia che sembra la

più pigra.

Le tocca il naso: «E’ un po’ secco, non avrete la febbre per caso?».

Preoccupato va verso le altre e si accorge che tutte hanno il naso freddo e secco.

«Tolky, vai a chiamare l’elfo Doc, le renne non stanno bene», grida in preda al panico. «Poverine!», si avvicina a ogni renna e, una per volta le accarezza:

 «Cometa, Ballerina, Fulmine, Donnola, Freccia, Saltarello, Donato, Cupido, vedo che proprio non vi reggete in piedi, e anche tu, Rudolph, il tuo naso rosso è diventato rosa pallido. Coraggio, sono certo che vi rimetterete presto, sarà soltanto un’indigestione e domani potremo partire, non si può fare aspettare i bambini».                                                                        

Babbo Natale cerca di tranquillizzare le povere bestiole spaventate ma, quando arriva l’elfo Doc il suo responso non lascia sperare nulla di buono: «Hanno preso un virus, guariranno fra una settimana,  hanno bisogno di riposare e di stare al caldo», afferma.

Dopo queste parole Babbo Natale si toglie il berrettone rosso e si gratta la testa, pensieri neri frullano nel suo cervello. Se ne torna in casa e si accascia davanti al camino. Una lacrima scende lungo la barba bianca. «Sono disperato», sussurra a Tolky che lo guarda preoccupato.

«Non fare così, vedrai che troveremo una soluzione. Mi ritiro nel pensatoio, mi verrà in mente qualcosa». Se ne va seguito dallo sguardo triste del buon vecchio.

Un giorno è trascorso e viene la sera, è la notte che precede il Natale e i bimbi nei loro lettini non riescono a prendere sonno: sperano di sorprendere Babbo Natale mentre mette i regali sotto l’albero.

Ma non sanno che, in un paese lontano, fra i ghiacci del Polo si sta consumando una tragedia: il grande vecchio con la lunga barba bianca sta singhiozzando davanti al camino, nessuno l’aiuta: le renne stanno male, non sa come farà a portare i regali.  sente solo e disperato.                                                                                             

La luna brilla nel cielo scuro, è una notte serena, però non è sereno il cuore di Babbo Natale. Il tempo passa inesorabile, la mezzanotte si avvicina…

Improvvisamente la porta si apre, un vento gelido entra in casa, e Tolky compare sulla soglia:

«Presto, sbrigati, vai a prendere la slitta….non c’è tempo da perdere!», grida affannato l’elfo,«un mio amico mi ha trovato la soluzione!»

Babbo Natale si alza: «Cosa stai dicendo? Senza le mie renne, chi mi porta in cielo?».

«Vieni a vedere, questo ti porterà dai tuoi bambini», dice Tolky.

In quell’istante si sente un rumore, e all’orizzonte compare un oggetto scintillante:

«Cos’è? », esclama Babbo Natale strizzando gli occhi.

Poco dopo un elicottero d’argento si posa sulla neve, scende un elfo con il casco:

«Svelti, salite!», grida affannato.

Tolky, aggancia la slitta traboccante di pacchi, aiuta Babbo Natale a salire sullo stravagante mezzo di trasporto…e via! Finalmente si va; davanti alla luna passa  uno strano convoglio: un elicottero argenteo che trascina una slitta, un Babbo Natale che sorride beato nella notte magica perché sa che i regali arriveranno puntuali ai piccoli che dormono e non sapranno mai che hanno rischiato di non averli.                                                                                                                                                        

 

 

 

 

  

 

 

 

lunedì 14 dicembre 2015

CHI E' LA SIGNORA AMALIA?


 

 

 

 



 

Francesco s’accostò al bancone del bar e ordinò un caffè. Mentre aspettava di essere servito vagò con lo sguardo per il locale: un albero di Natale stracarico di addobbi scintillanti donava all'ambiente un po' squallido una nota di colore.  L’anziana signora, seduta al tavolino poco distante, lo stava fissando fin da quando era entrato nel locale, uno sguardo insistente, quasi provocatorio, forse per attirare la sua attenzione. Ma Francesco non l’aveva neppure notata, era infreddolito e stanco, stava guidando da ore e quel caffè caldo se l’era sognato durante il tragitto. Ora la tazzina fumante era davanti a lui e si voleva gustare il piacere di mandar giù un sorso in santa pace. La bevanda gli entrò nello stomaco e gli fece bene, ne aveva un bisogno fisico e impellente: si sentiva pronto a riprendere il viaggio.  Si era fermato mentre stava percorrendo la via Aurelia in direzione di Savona, non aveva molti chilometri da fare, era quasi arrivato, aveva già oltrepassato la città e Loano non era molto lontana. 
Stava tornando a casa sconfitto, era andato via pieno di speranze, ma il destino gli si era rivoltato contro, non era riuscito a ottenere il prestito dalla banca per continuare a tenere in piedi la sua azienda in crisi. Era un piccolo imprenditore che si stava barcamenando, in questi momenti difficili, per tenere a galla la fabbrica di borse dove lavoravano dieci operai. Aveva assolutamente necessità di un finanziamento per pagare gli stipendi e tenere a bada i creditori, altrimenti avrebbe dovuto chiudere e lasciare a spasso i dipendenti. Proprio in quei giorni che precedevano il Natale aveva avuto un ultimatum: pagare entro una data stabilita altrimenti avrebbe dovuto dichiarare bancarotta.  La testa era piena di pensieri funesti, anche la strada tutta curve, che ben conosceva, l’aveva stressato: era buio e pioveva, non vedeva l’ora di togliere le scarpe e di buttarsi sul letto. Stava posando la tazzina sul banco quando il fracasso del piattino che si rompeva sul pavimento lo fece voltare. Istintivamente si chinò per raccogliere i cocci e quasi si scontrò con la donna piegata sui frammenti sparsi dovunque.

«La ringrazio, è molto gentile, l’ho fatto senza accorgermene, lasci, adesso viene il barista, non si disturbi», disse lei, gli occhi chiari, azzurri, leggermente appannati dall’età, si alzarono sul viso di Francesco che le sorrise.

«Sono cose che capitano», farfugliò banalmente lui, senza sapere cosa aggiungere.

La donna si alzò dal pavimento con fatica, quando arrivò il ragazzo del bar con scopa e paletta, si diresse verso Francesco e gli appoggiò la mano su un braccio:

«Mi scusi, lei va verso Loano?», domandò.

«Sì, abito proprio lì», rispose lui voltandosi sorpreso.

«Senta giovanotto, mi darebbe un passaggio?  dovrei tornare a casa, ho freddo e sono stanca, non ce la faccio più», aveva la voce tremula, come di chi si sente male.

Francesco rimase un attimo interdetto, non si aspettava questa richiesta. Tardò a rispondere e la donna riprese: «Sono sfinita, arrivo da molto lontano, alla mia età non si sopportano più le fatiche. Farebbe veramente un’opera buona, e poi non abbia timore, non sono una vecchietta con la pistola in tasca…mi guardi, sono innocua, non farei male a una mosca!»

Lui alzò le spalle e sorrise alle battute della vecchia signora, quella donnetta lo impietosiva: sola e infreddolita seduta a un tavolino di un bar di passaggio, chissà perché era lì? Ma non se lo chiese e decise di assecondarla.

«Va bene, se si fida della mia guida, cercherò di riportarla a casa».

La sua interlocutrice sorrise soddisfatta:

«Grazie, non dimenticherò, lei è una brava persona. Ah, mi scusi», continuò poi, « non mi sono presentata, mi chiamo Amalia», allungò la mano verso quella di Francesco che a sua volta disse il suo nome. Fatte le presentazioni, Francesco pagò il caffè e si accinse a uscire:

«Andiamo?», disse rivolgendosi alla donna che era già pronta a partire.

Lei afferrò la borsetta e lo seguì verso l’auto parcheggiata ai bordi della strada. Si misero in viaggio, la signora Amalia, dopo pochi chilometri si appisolò. Francesco l’osservò con la coda dell’occhio per non distrarsi dalla guida, la testa con la chioma bianca e leggera come un’aureola era abbandonata leggermente di lato, sul viso un piccolo sorriso le dava un’aria serena, anche lui, guardandola, sentì dentro di sé distendersi quel grumo che si portava dentro da ore.

«Chissà cosa ci faceva in quel bar, a quest’ora e con questo tempaccio», pensò Francesco, non gli aveva detto nulla di sé, nemmeno dove voleva essere lasciata. In effetti quel pensiero gli dava una certa preoccupazione, la signora era anziana e si sentiva responsabile. Si chiedeva se aveva fatto bene a prenderla con sé, ma era stata una decisione improvvisa e talmente spontanea che non gli aveva lasciato il tempo di pensare. «Quando sono arrivato la sveglio, così mi dirà dove la devo lasciare», pensò.

La cortina della pioggia battente toglieva visibilità alla strada pericolosa anche per il susseguirsi delle curve a gomito, Francesco guidava con i nervi tesi per l’attenzione, a un tratto la donna che aveva accanto si svegliò:

«Attento, c’è un camion dietro la curva!», esclamò.

Francesco fece appena tempo a sterzare, il grosso Tir aveva invaso una parte della corsia opposta, se non fosse stato avvisato con l’esclamazione della signora Amalia, l’incidente sarebbe stato inevitabile. Appena passato il grosso veicolo, il giovane si mise una mano sulla fronte imperlata di sudore e tirò un respiro di liberazione:

«Come ha fatto a sentire che stava arrivando quel bestione!», chiese ancora sotto choc.

«Non so», fu la laconica risposta, poi la donna girò la testa dall’altra parte e si riaddormentò.

Francesco era rimasto colpito dall’episodio, più ci ripensava e più si convinceva che la vecchietta, che si era riappisolata, gli aveva salvato la vita. Continuò il viaggio con questo pensiero. «Fra un po’ la dovrò svegliare», si disse, «manca poco».

In vista del cartello stradale di Loano, Francesco la toccò leggermente sul braccio:

«Signora, siamo arrivati, dove l’accompagno?».

La donna si scosse, «Ah, grazie giovanotto, mi lasci per favore davanti alla chiesa, sono di casa in parrocchia», affermò sorridendo.

Arrivarono sul sagrato, lei scese sveltamente, senza aspettare che Francesco le aprisse la portiera:

«Non si disturbi, ce la faccio ancora. E’ stato molto gentile, ha fatto un’opera buona. Saluti sua moglie e i suoi bambini», esclamò andandosene. Inspiegabilmente Francesco non la vide più: era scomparsa. Ripensò alle sue parole: « Come fa a sapere che ho moglie e figli? Mah…è una strana vecchietta, spero di aver fatto una cosa giusta accompagnandola, non vorrei avere dei fastidi», mormorò, «però adesso finalmente posso tornare a casa!»

Francesco arrivò davanti al suo villino stremato dal viaggio e dalle strane vicende che gli erano capitate, mise la vettura nel box, ritirò la borsa e il giaccone, mentre si accingeva a chiudere le portiere notò una grande busta bianca sotto il sedile davanti. La prese e vide che era indirizzata a dottor Mario Bernardi, di Savona.

«E questa cos’è?», mormorò rigirandola fra le mani, «non è mia, sarà della signora, ha detto che è di casa in parrocchia, domani la consegno a don Giacomo, ci penserà lui a dargliela».

Rientrò a casa, nell’abbraccio affettuoso della sua famiglia dimenticò per quella sera i suoi problemi. Ma l’indomani il parroco cadde dalle nuvole:

 «Non conosco nessuna signora Amalia, mi dispiace», disse all’attonito Francesco che, oltre alle sue grane aveva per le mani quella busta non sua.

«Se posso dare un consiglio, direi di imbucarla, c’è già l’indirizzo, così è sicuro che arriva», continuò il sacerdote.

«Buona idea!», rispose sollevato Francesco e l’inserì nella prima buca delle lettere che incontrò.

Però gli rimase da sciogliere il mistero della donna incontrata in un bar dell’Aurelia. Chi era? Perché gli aveva detto che conosceva il parroco del paese se don Giacomo non l’aveva mai vista?  Talvolta  nella vita ci sono cose  di cui non puoi trovare spiegazioni e la figura della signora Amalia era una di quelle: comparsa improvvisamente e sparita nel nulla. Di lei era rimasta soltanto una busta bianca.

I giorni passavano e la situazione economica di Francesco si faceva sempre più difficile, i creditori che lo inseguivano, le banche con i conti perennemente in rosso, gli stipendi da pagare, torturavano le sue notti. Purtroppo aveva deciso di dichiarare bancarotta e di chiudere l’azienda, gli dispiaceva soprattutto per i suoi dipendenti fra i quali c’erano anche padri di famiglia cui doveva dire che avrebbero perso il lavoro e anche la liquidazione. Si vergognava perfino ad andare in fabbrica, aveva cercato con tutte le sue forze di evitare tutto questo, ma non ce l’aveva fatta.

 Quel mattino arrivò la posta che, da un po’ di tempo, Francesco metteva da parte per non  angustiarsi ulteriormente. Erano quasi sempre solleciti di pagamento, ormai non si aspettava altro. Quando si decise a sfogliare la corrispondenza la sua attenzione fu attratta dall’ultima lettera che giaceva sotto le altre. L’aprì aspettandosi la solita brutta notizia, ma fin dalle prime righe si accorse che era una richiesta anomala: il notaio Bernardi l’invitava nel suo studio il giovedì successivo alle ore diciotto per comunicazioni che lo riguardavano.

Rilesse il testo e l’indirizzo, controllò che fosse diretta a lui e ne dedusse che non c’era nessun dubbio: l’invito era proprio per il signor Francesco Ferri, ovvero lui in persona.

  «Sono certo che sarà ancora un’altra seccatura, ci sarà qualcuno che vuole dei soldi», disse quella sera alla moglie.

«Però sarà meglio che tu vada a vedere, non vorrai metterti nei pasticci, un notaio è pur sempre un pubblico ufficiale», rispose lei. Ormai erano pronti a tutto, vedevano il mondo rovesciarsi addosso.

Il giovedì pomeriggio Francesco salì le scale dell’antico palazzo dove abitava il notaio.

Era agitato, non sapeva proprio cosa l’aspettava, entrò. Una bella ragazza lo fece accomodare in un salottino in stile liberty, nell’attesa prese una rivista da sfogliare.

Sentì il rumore di una porta che si apriva e si voltò. Con sua enorme sorpresa vide la signora Amalia, proprio quella cui aveva dato il passaggio, attraversare la stanza.

Gli passò vicino e gli sorrise, lui era pietrificato e tentò di fermarla, lei però proseguì e uscì da un’altra porta. In quel momento la segretaria del notaio lo chiamò:

«Può accomodarsi», gli disse, ma lui era ancora intento a riaversi dalla sorpresa.

«Ma…quella signora», balbettò.

«Quale signora? Qui non c’è nessuno, la prego il notaio l’aspetta», rispose lei guardandolo come si guarda un esaltato. Francesco entrò nello studio con le gambe che gli tremavano.

«Chiedo scusa, perché questo invito?», chiese ancor prima che il notaio parlasse.

L’uomo seduto dietro la scrivania di mogano l’osservò per qualche secondo:

«Si calmi», disse poi, «l’ho convocata per una cosa molto importante che la riguarda da vicino».

Francesco era sempre più in tensione, aspettava con ansia che l’altro parlasse chiaro.

«Lei conosce Amalia Ferri?», chiese il pubblico ufficiale.

Francesco ebbe un sussulto:

«Amalia Ferri? …ho incontrato una sola volta una signora che mi ha detto di chiamarsi Amalia, ma non l’ho più rivista», rispose angosciato.

«Lei è Francesco Ferri? Mi vuole mostrare i documenti?»

Sempre più in ansia Francesco mise la carta d’identità sulla scrivania. Dopo aver dato un’occhiata il notaio prese un foglio:

«Giorni fa mi è stato recapitato per posta il testamento della signora Ferri, sua zia, morta un mese fa  a Buenos Aires. Non so come ha fatto quel documento ad arrivare fin qui, ma io sono un pubblico ufficiale e sono obbligato a comunicarle il contenuto».

Il cuore di Francesco era come impazzito, si mise una mano alla gola:

«Sì, la sorella di mio padre è emigrata sessant’anni fa in Argentina…», mormorò, aveva la testa confusa, una nebbia gli era calata davanti agli occhi, sentiva il notaio che parlava, parlava, leggeva un testamento che diceva che lui era l’unico erede di una fortuna, quella della zia Amalia, vedova e senza figli, consistente in una notevole somma di denaro, titoli, e vari immobili.

«Senta, dico a lei!», il notaio stava sollecitandolo.

 Francesco si riprese: «Sono sconcertato, mi deve scusare».

«La capisco, ma un’ultima cosa, le devo consegnare questa foto, poi firmi qui. Ci sentiremo in seguito per le varie formalità», concluse lui affrettando i tempi.

Il ritratto della zia Amalia era quello della vecchia signora cui aveva dato il passaggio.

Uscì da quello studio ancora incredulo, si voltò e per un attimo rivide accanto a sé la signora Amalia, ma ormai non si scomponeva più: «Grazie zia», sussurrò, «non ti dimenticherò mai».

Tornò a casa con le gambe molli ma il cuore sereno: era salvo! ... e soprattutto erano salvi i suoi operai e impiegati che non avevano perso il lavoro!
 " Buon Natale a tutti!", esclamò stringendo in un forte abbraccio la sua famiglia.
FINE
  
 


 

 

 

 

 

    

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

domenica 25 ottobre 2015

L'ORCHIDEA NERA --Ultima puntata



Il capitano Lombardi era un tipo tenace e cocciuto come un mulo, fece impazzire i
subalterni, ma in breve tempo seppe quello che voleva sapere.

Dalle ricerche risultò che Giorgio Valenti e Alex Giuliani, i due uomini che erano in compagnia della ragazza di colore la sera della contravvenzione erano soci e titolari di un’agenzia di pubblicità. Accompagnato dal maresciallo Santoro, Vito si recò negli studi della “Publi Fashion”. La ragazzina che venne ad aprire sgranò gli occhi alla vista delle divise:
“E’ successo qualcosa?”, chiese allarmata.

“Vorremmo vedere il signor Valenti o il suo socio Alex Giuliani”, disse il capitano.

 Un tipo con i capelli tirati indietro da un codino, li raggiunse:

 “Posso sapere il perché”, chiese con un accento straniero “sono Patrick Smith, il fotografo dell’agenzia”.

“Mi dispiace, vorrei parlare con il proprietario”, tagliò corto Vito.

L’altro fece una smorfia:

 “Capitano, non posso accontentarla, il mio principale è in viaggio per lavoro e non so quando tornerà”.

“Avete visto questa ragazza?”, domandò mostrandogli il ritratto di Zaira. Dall’espressione del fotografo capì che l’aveva messo in difficoltà. L’uomo non si decideva a rispondere:

“Allora?…mi può dire se la conosce?”, insistette.

“No…non l’ho mai vista”, rispose Smith quasi sottovoce.

“Vorrei dare un’occhiata agli studi”, disse deciso Vito

Il fotografo rimase un attimo interdetto poi decise di collaborare:

“Certamente, vi faccio strada”, li invitò.. e li condusse nei locali dello studio.
Vito e il maresciallo visitarono varie stanze senza trovare nulla che li inducesse a pensare che Zaira fosse stata lì, ma, nel reparto grafico, il capitano notò uno scatolone sotto un tavolo, si chinò e vide che era colmo di provini. Prese un fotocolor e lo guardò controluce: la donna impressa nella pellicola gli sembrò proprio Zaira. Purtroppo il suo viso era coperto per metà dai lunghi capelli neri:

 “Questa chi è?”, chiese mettendo sotto il naso di Smith il fotocolor.

“Quella è Dea, una ragazza americana, che ha posato per noi”, rispose pronto l’uomo.

“Dove la posso trovare?”, incalzò il capitano.

 “Non so…ha finito il lavoro ed è partita…forse è tornata a casa, negli Stati Uniti”, farfugliò l’altro.

Vito aveva la netta impressione che quel fotografo non gli dicesse la verità, più ci pensava più si convinceva che l’immagine che aveva visto fosse quella di Zaira: il corpo flessuoso celato solo da un velo, i capelli lunghi che arrivavano fino alle spalle, il profilo dolce e un po’ triste erano quelli della sua donna. L’intuito l’aveva  portato nel posto giusto, ma era arrivato tardi….ancora una volta lei era sparita. Per il momento non gli rimaneva altro che andarsene, però non voleva lasciare Milano finché i suoi sospetti non fossero chiariti.

Il maresciallo Santoro fu incaricato di tenere d’occhio l’agenzia pubblicitaria e di svolgere indagini, qualcuno sicuramente sapeva della ragazza di colore che lavorava per lo studio… ritrovarla era un’impresa non facile. Il capitano era talmente assillante che non gli lasciava un attimo di tregua: “chissà perché aveva tanto interesse a rintracciare quella donna?” si chiedeva il maresciallo, ma doveva ubbidire senza chiedersi tanti perché.  

 

A bordo dell’aereo per Parigi , Zaira guardava dal finestrino la terra sottostante allontanarsi velocemente, era malinconica, sapeva che  stava lasciando laggiù, fra quelle case minuscole, la parte più importante della sua vita.

Ma ancora non sapeva che stava per iniziare per lei un cammino tutto in discesa. Nella casa di moda, che sponsorizzava la campagna per il nuovo profumo Orchidea Nera, il progetto dell’agenzia di Valenti ebbe grande successo, legato soprattutto all’immagine della bella testimonial. Era lei, Zaira,  il fiore tropicale dall’intenso profumo inebriante e la bella somala era stata catapultata in un mondo che non conosceva, frenetico, eccitante, in continuo movimento.  

Le giornate si susseguivano una  dopo l’altra senza un  attimo di tregua, anche perché  la casa di moda, visto il successo, le propose di indossare i  modelli della nuova collezione.

Il suo nome cominciò a circolare nell’ambiente, i francesi impazzirono per lei che in breve tempo divenne la top model più richiesta del momento. Il suo fascino esotico, accentuato dall’aria sempre triste la rendevano misteriosa e irraggiungibile.

 Di lei non si sapeva nulla, non concedeva interviste e la sua vita privata era impenetrabile. Zaira diventata per tutti l’Orchidea Nera, lavorava senza tregua per stordirsi e non pensare; però in fondo al suo cuore c’era sempre il rimpianto di aver tradito Vito e di non essere stata in grado di affrontare a viso aperto la realtà. Il denaro che guadagnava non le dava la felicità, solo la sicurezza e la possibilità di aiutare la sua famiglia. Erano trascorsi solo pochi mesi e la sua vita era stata capovolta: non era più la ‘serva negra’ della signora Giannini, ma una donna diventata il simbolo della bellezza e dell’eleganza. Quando sfilava il suo naturale portamento valorizzava i vestiti che indossava, incedeva sulla passerella e magnetizzava gli sguardi di tutti presenti. Il suo viso severo ed enigmatico carico di seduzione, il fare quasi scostante, avevano fatto nascere su di lei molte leggende, qualcuno diceva perfino che fosse una principessa…ma nessuno sapeva che dietro a quello schermo gelido c’era tanta infelicità…

 

Durante quel periodo, Vito, dopo aver fatto l’impossibile per rintracciarla, era stato costretto a cedere, aveva fatto ritorno, sconfitto, alla caserma in cui era cominciato il suo tormento. Da quando era tornato da Milano, era cambiato, imbestialito contro il mondo intero e anche contro se stesso: non essere riuscito a rintracciare Zaira era stato uno smacco….anche professionalmente, ma soprattutto gli mancava lei. I suoi baci, le sue carezze e la passione che li aveva uniti, con lei aveva trascorso momenti che non era facile dimenticare, non riusciva a rassegnarsi di aver perso la donna che aveva sempre cercato.

 In un giorno come gli altri, in cui l’attesa di notizie era diventata angosciante, un giovane carabiniere entrò nel suo ufficio:

“Capitano è arrivato l’esito delle impronte”, annunciò. Vito aprì subito la busta e sulle sue labbra apparve un sorriso: “L’avevo sempre saputo”, mormorò.

 In quelle carte c’era una parte di verità: nessuna impronta di Zaira era stata rilevata sul gioiello che, secondo l’ostinata testimonianza della moglie del medico, era stato rubato dalla cameriera somala che suo marito aveva portato in casa,

 “Un passo è fatto”, si disse compiaciuto il capitano, “anche se non riuscirò a trovare Zaira andrò fino in fondo…quella donna dovrà pagare per il male che le ha fatto…e che mi ha fatto.. riusciremo ad incastrarla, dovrà ammettere di essersi inventata tutto, per gelosia”.

Se la giustizia non è di questa terra c’è qualcosa di arcano che aiuta gli innocenti. Passò qualche giorno e, prima che Vito richiedesse di interrogare la vedova del dottor Giannini,  arrivò una telefonata dall’ospedale:

“Capitano… la signora Marisa Giannini è ricoverata da noi per un incidente d’auto e chiede di lei: la prego di venire subito, è urgente….la signora è grave e insiste per vederla. Dice che deve fare delle importanti dichiarazioni”.

Lombardi fece preparare la vettura e partì a tutta velocità. Arrivò trafelato, un medico lo stava aspettando e lo condusse in sala di rianimazione. Indossò la vestaglia, la mascherina verde e si avvicinò al letto .

 Marisa  aprì gli occhi: “Grazie di essere venuto, capitano”, mormorò, “voglio confessarle tutto: non posso andarmene con questo peso sul cuore”.

Vito attonito guardava quella donna che aveva rovinato la sua vita, ma non provava rancore in quel momento, solo pietà. Accese il registratore e si accinse ad ascoltare:
“Può cominciare…”, le disse accostandosi ancor di più alla bocca della donna che con un filo di voce cominciò a parlare.

Marisa Giannini rivelò la sua colpa, la gelosia l’aveva spinta ad accusare Zaira e ora voleva liberarsi la coscienza: il racconto si snodava interrotto da pause, durante le quali chiudeva gli occhi esausta. Vito seguiva attentamente e, mano a mano che la poveretta parlava, sentiva sciogliersi dentro di sé il nodo che l’aveva attanagliato per tutto quel tempo. Finalmente la verità! L’aveva sempre sospettato che quella donna avesse costruito un castello di accuse, spinta dal rancore che aveva dentro…ma non aveva mai potuto dimostrarlo. Ora era lì, pentita perché in fin di vita, che rivelava i segreti del suo animo perverso.

“Ho finito, capitano… chiedo perdono…”, concluse affranta abbandonandosi sul cuscino.

Vito uscì dalla sala di rianimazione impressionato: non avrebbe mai creduto che finisse così…quella poveretta  era stata presa dal rimorso e si era liberata l’anima da una grande colpa prima di rendere conto a Dio.

 Prima di andarsene parlò con il medico: “Ci sono speranze per la Giannini?”, chiese.

L’altro, dopo una pausa, rispose:

 “Per ora è in prognosi riservata…però potrebbe anche cavarsela”.

“Glielo auguro, specialmente per i suoi bambini…ha fatto una buona azione e se lo merita…”, disse serio Vito.

Con il registratore ben stretto in tasca, il capitano si allontanò: era felice ….ma ancora non era finita. Mancava all’appello la persona più importante: Zaira, scagionata e libera di tornare a vivere alla luce del sole. Avrebbe voluto averla vicino per abbracciarla e festeggiare insieme quel momento felice. “Dove sei?”, pensava avvilito sentendosi inutile. Non poteva dimenticarla, ormai era diventata la sua ossessione, telefonava spesso a Milano con la speranza di avere notizie. Purtroppo la risposta era sempre quella: “Niente di nuovo, capitano… le ricerche continuano”.

Quel giorno, stava spettando il suo turno dal dentista, per passare il tempo prese dal portariviste un settimanale femminile e si mise a sfogliarlo distrattamente. Improvvisamente il suo cuore fece un balzo: in un servizio che pubblicava le sfilate di moda di Parigi c’era una foto che attirò il suo sguardo. A pagina intera era ritratta una modella che stava sfilando in passerella… “Zaira!”…mormorò incredulo. Osservò meglio: non c’erano dubbi, era proprio lei: gli occhi neri vellutati con le lunghe ciglia e, sopra il labbro il piccolo neo, che soltanto lei poteva avere…Indossava un abito da sera ed era bellissima, un po’ cambiata, più sofisticata, ancor più arricchita del fascino che le era naturale. Lesse la didascalia: “ La top model Dea Morris, detta anche Orchidea Nera, sfila a Parigi per le ultime collezioni”.  Saltò dalla sedia e schizzò fuori con il giornale in mano, si precipitò in ufficio e diede ordine che prenotassero un posto sul primo aereo per Parigi.

 

Zaira si svegliò a malincuore, avrebbe voluto stare ancora far le lenzuola, come le accadeva da qualche tempo le sue notti erano disturbate da sogni angosciosi. Vito le appariva spesso, lontano e irraggiungibile, sentiva la sua voce che la chiamava, si svegliava di soprassalto e non riusciva più a prendere sonno. Non aveva mai smesso di pensare a lui, migliaia di chilometri li separavano ma le loro anime si stavano cercando. Era tanto stanca di quella vita dorata e frenetica, in lei stava maturando una decisione importante, che avrebbe cancellato in un momento tutta la fortuna che le era piombata addosso…era disposta a sacrificare qualsiasi cosa  pur di avere Vito vicino, anche nella cattiva sorte….mentre faceva la doccia mille pensieri occupavano la sua mente, si stava preparando per sfilare, ma la testa era altrove.

“Cos’hai oggi?”, le chiese la sarta mentre le aggiustava un abito addosso, “sei più pensierosa del solito”.

“Sto decidendo qualcosa di importante”, lo sguardo di Zaira era fisso nel vuoto e la donna borbottò:

 “Sono tutte un po’ strane queste qui”.

La sala era gremita, i fasci di luce tagliavano il buio , il sottofondo musicale si diffuse nell’aria: “Tocca a te”, disse qualcuno alla modella pronta per uscire.

 Zaira cominciò a percorrere la passerella, gli sguardi dei presenti erano tutti fissi su di lei e si levò un mormorio di ammirazione.  La ragazza camminava col solito passo elegante, ma il suo viso era impenetrabile, arrivò fino alla fine e si fermò. Rimase immobile per qualche secondo suscitando lo stupore del pubblico.

“Un momento di attenzione , per favore . Vi annuncio che questa è la mia ultima sfilata”, disse con voce chiara e sicura, “ringrazio tutti, mi avete dato molto, ma ora devo andare, questa non è la mia vita e devo raggiungere qualcuno che mi  aspetta”.

Si girò e quasi correndo raggiunse il retro dove, il suo gesto aveva generato lo scompiglio assoluto. Lo stilista che presentava la collezione stava imprecando, dal viso cianotico si poteva supporre che fosse al limite del collasso:

“Fermatela!…è impazzita…mi vuole rovinare..”, urlava con voce stridula  in preda ad un attacco isterico. Intorno a lui c’era il caos. Zaira passò fra tutti senza ascoltare nessuno, si cambiò velocemente e fuggì inseguita dai flash dei fotografi che non si erano lasciati scappare lo scandalo in diretta. Si recò a casa, mise qualcosa in valigia e chiamò un taxi:

 “All’aeroporto Charles De Gaulle”, disse, finalmente felice di essersi liberata dal peso che l’aveva perseguitata per tutto quel tempo. La scelta di consegnarsi spontaneamente a Vito era stata dettata soprattutto dall’amore per lui, si rendeva conto di averlo messo in gravi difficoltà, scappando.…e poi non ce la faceva più, la voglia di rivederlo era troppo grande: era disposta ad affrontare tutti i tribunali del mondo pur di riabbracciarlo…

Non le era costato nulla lasciare quel mondo fatuo nel quale era capitata solo per caso, i suoi sentimenti e l’essere in pace con se stessa erano stati la molla che aveva fatto scattare all’improvviso la decisione di tornare in Italia.

Quando scese dall’auto, prima di entrare nell’aeroporto gettò in un cestino i documenti falsi che le avevano permesso di nascondersi fino ad allora: “Addio Dea Morris, addio Orchidea Nera…io sono Zaira”, si disse con uno scatto d’orgoglio.

 

Vito, sul volo dell’Air France fremeva d’impazienza: non vedeva l’ora di arrivare. Ripensava all’incredibile storia d’amore che gli aveva riservato il destino; riviveva i momenti meravigliosi vissuti con Zaira ma riaffiorava anche tutta l’angoscia dei giorni terribili, quando doveva rintracciarla per consegnarla ad una giustizia che, qualche volta, non era tale. Ora era tutto finito! L’aveva trovata e la felicità di riabbracciarla sarebbe rimasta intatta: niente poteva più separarli. Ora sapeva come muoversi, dove cercarla, non gli sarebbe più sfuggita.

 L’aereo atterrò, i passeggeri scesero dalla scaletta e si avviarono al pulmino per uscire. Il capitano Lombardi non aveva bagaglio, aveva con sé solo una borsa, e se n’andò subito. Attraversò lo spazio che lo separava dall’uscita con passo svelto, senza curarsi di ciò che aveva intorno. Aveva fretta e scostava la gente che gli impediva il passaggio, quasi si scontrò con una ragazza che stava trascinando una valigia a capo chino. “Scusi”, borbottò. La giovane alzò la testa e ambedue rimasero paralizzati, con gli occhi sbarrati e la bocca aperta come se, ciascuno di loro avesse davanti un’apparizione.

“Zaira!”, “Vito!”, dalle loro labbra uscì contemporaneamente un grido.

Si buttarono l’una nelle braccia dell’altro, ubriachi di felicità.

 “Non è possibile…non ci credo…sei proprio tu…”, continuava a ripetere Vito.

 Zaira, con gli occhi colmi di lacrime si staccò:
“Stavo venendo da te, ho deciso di costituirmi…succeda quello che deve succedere, ma non voglio perderti…ti amo”, disse con la voce rotta dall’emozione.

 Vito la guardò intensamente: “Non è più necessario amore mio…vieni, ti devo parlare…”.

Fuori, davanti all’ingresso, fra l’andirivieni delle persone cariche di valige, raccontò ciò che era accaduto all’ospedale, disse della confessione di Marisa e mentre parlava il viso di Zaira si distendeva: “Mi stai dicendo la verità?”, chiese mentre il cuore le stava uscendo dal petto tanto batteva forte.

“Sei libera, libera di andare dove vuoi”.

“Voglio stare con te…per sempre”, disse lei.

 Si guardarono negli occhi: la malia che li aveva spinti uno verso l’altra la prima volta che si erano visti, li univa sempre di più. Ora niente poteva dividere le loro strade.

Una signora si avvicinò a Zaira:

“.Mi fa un autografo?…lei è la top model Orchidea Nera, vero?”, disse scrutandola.

“No signora…mi dispiace, si sbaglia…sono arrivata adesso dall’Italia, con il mio fidanzato”, rispose stringendosi a Vito.

La donna li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano abbracciati:

 “Eppure sembrava proprio lei…”, brontolò poco convinta.               

FINE                                                                                                                                                        

 

 


 

 

 

 




 

 

 

 

       

 

domenica 18 ottobre 2015

L'ORCHIDEA NERA quinta puntata





 Da quel momento  Zaira  visse come in un sogno. Dalle mani del parrucchiere, visagista,  manicure, pedicure  la sua naturale bellezza sbocciò, sensuale e misteriosa, come un fiore esotico. Fece centinaia di foto solo per sceglierne qualcuna, tutto lo studio lavorò per giorni e giorni e infine le dissero che avevano concluso: era nata l’ “Orchidea Nera”,  mancava solo l’approvazione del cliente.

“Stasera facciamo festa e …domani andiamo a Parigi”, annunciò Valenti, “naturalmente Zaira, dovrai venire anche tu”.

La ragazza rimase un attimo perplessa:

“Non è possibile, non ho documenti”, rispose , in realtà era tornata la paura e  non aveva nessuna voglia rischiare.

“Non sottovalutarmi…guarda qui”, disse Alex porgendole  una busta .

Zaira l’aprì e dentro c’erano passaporto,  carta d’ identità: ma sotto la sua foto c’era un altro nome: “Cosa vuol dire?”, balbettò.

“D’ora in poi sei Dea Morris, nessuno riuscirà più a trovarti e come nome d’arte non mi sembra niente male…”, il giovanotto le strizzò l’occhio: “stai tranquilla, andrà tutto bene, hai fatto un ottimo lavoro e credo che questo sia l’inizio, presto si accorgeranno di te….prevedo una brillante carriera….Ma  adesso usciamo a festeggiare…dai, vieni con noi”, la trascinò fuori senza darle il tempo di replicare.

Si fermarono in un pub e ordinarono una bottiglia di champagne, erano euforici, le bollicine fecero il resto: dopo la prima bottiglia ne chiesero altre e alla fine della serata  erano tutti brilli.  Uscirono in strada quando le prime luci dell’alba stavano schiarendo la città addormentata.

“Speriamo che non ci fermi la polizia…e non ci faccia la prova del palloncino”, disse Valenti, malfermo sulle gambe, entrando nell’auto al posto di guida.

 Partirono sgommando, ma più tardi il presentimento diventò realtà: la paletta di un agente si materializzò davanti al guidatore, dopo un semaforo.

I poliziotti chiesero i documenti e si soffermarono,  proprio su quelli di Zaira. Sembrava che avessero particolare interesse a esaminare quelle carte: ogni tanto fissavano, con occhi dubbiosi, la ragazza, che si rannicchiava spaventata nel sedile.  Trascrissero le generalità di tutti e infine, dopo aver dato una bella multa a Valenti per guida in stato di ebbrezza, li lasciarono andare. Dal petto della giovane somala uscì un grande sospiro di sollievo: “Ho avuto paura”, mormorò, “credevo mi arrestassero”.

“Hai visto? Questa è stata la prova che  la tua nuova identità funziona…d’ora in poi sei libera!”, esclamò Alex.

Ancora sotto l’effetto dell’alcol i tre ripartirono allegramente: che importanza aveva la contravvenzione? Ciò che contava in quel momento era aver terminato il lavoro in attesa di incassare un bell’assegno con tanti zeri…

 

Vito non aveva smesso di cercare Zaira, aveva diramato l’identikit a tutte le questure d’Italia, lo faceva con testardaggine e non voleva arrendersi, oltre al dovere di carabiniere c’era soprattutto la  voglia di rivederla o almeno di sapere dov’era andata a finire e se si era messa ancora nei guai.

 Non si dava pace, e non dava tregua nemmeno alla moglie del medico che  implacabilmente accusava Zaira di aver assassinato il marito.

Quella donna era furba e malvagia, rispondeva agli interrogatori con una calma serafica , ripeteva sempre la stessa versione dei fatti, non c’era verso di farla cadere in contraddizione.

Ma, se lei era determinata anche Vito non mollava, continuava le indagini convinto che prima o poi la verità sarebbe emersa. Aveva fatto esaminare dalla polizia scientifica il gioiello trovato sotto il materasso del letto di Zaira per rilevare le impronte e stava ancora aspettando i risultati, sicuro che non ci sarebbero state quelle di Zaira.

Il fatto aveva suscitato molto scalpore e il capitano Lombardi aveva attirato su di sé l’attenzione dei suoi superiori che non si spiegavano il suo accanimento di voler continuare le indagini quando era tanto chiaro che la colpevole era la colf di colore fuggita dopo il delitto… La morte del dottor Giannini era stata un avvenimento clamoroso, tutti ne avevano parlato, stampa, televisione, si erano buttati a capofitto sulla notizia e l’opinione pubblica era divisa in due: chi dubitava della colpa della giovane e chi si accaniva contro i clandestini . 

Quella mattina Vito era più stanco del solito: aveva trascorso la notte a pensare e si era addormentato solo verso mattina. L’appuntato Gargiulo lo sbirciò e capì che anche quella sarebbe stata una giornata nera.

“Novità?”, chiese il capitano non appena lo vide.

“C’è qualche segnalazione…”, cominciò il carabiniere.

“Cosa aspetti a dirmelo?”, sbottò innervosito Vito.

Il povero Gargiulo si limitò a mettere sulla scrivania del comandante i fogli che teneva in mano.:

“Ecco capitano, riguardano la ragazza somala che stiamo cercando”, disse timidamente.

Lombardi fece un salto sulla sedia:

“Dovrei arrestarti…ma non posso!”; esclamò al colmo dell’ira., “Si può sapere cos’hai in testa?…sono giorni che stiamo impazzendo…subito dovevi avvisarmi , sparisci”.
Il poveretto uscì chiedendosi quale delitto aveva commesso…

La segnalazione proveniva da Milano, avevano fermato una vettura con a bordo due uomini e una donna che corrispondeva alla descrizione, ma che aveva un altro nome: Dea Morris, cittadina americana.

Vito rilesse tante volte il fax e gli venne in mente che, il giorno stesso in cui Zaira era scomparsa gli avevano segnalato la presenza di una ragazza di colore  trovata senza biglietto, sul treno per Milano.

Non aveva dato importanza alla notizia, anche perché gli era stato detto che la giovane in questione era accompagnata da un uomo che aveva pagato per lei dicendo che non aveva fatto in tempo ad acquistare il biglietto alla stazione di partenza. Collegò le due cose e convenne che anche se c’era una labile traccia, doveva seguirla fino in fondo: decise di partire per il nord per non lasciare nulla d’ intentato, non se lo sarebbe mai perdonato.

 

Anche Zaira quella sera, era nervosa, non riusciva a prender sonno, pensava a Vito all’assurda vicenda che stava vivendo: strappare così dalla sua vita l’amore che la legava a lui era stato troppo doloroso.

 Le giornate nello studio erano state caotiche, quasi non le avevano dato il tempo di riflettere, ma ora che era tutto finito era presa dalla voglia di rivederlo.  A distanza di tempo quello che era successo le sembrava un brutto sogno dal quale prima o poi si sarebbe risvegliata , ma si chiedeva se scappare era stata la cosa giusta…forse aveva ragione il suo carabiniere, doveva avere il coraggio di affrontare il giudice e respingere l’accusa a testa alta, senza  le paure per colore della sua pelle. In fin dei conti era innocente e Vito l’avrebbe difesa, doveva aver fiducia in lui.

Si avvicinò al telefono: e se l’avesse chiamato? L’apparecchio era lì, invitante, bastava cercare il numero, comporlo e avrebbe sentito la voce di Vito. La mano si protese tremante e…il telefono squillò.

 “Sono Alex…allora sei pronta? Ti vengo a prendere domattina presto, si parte da Linate con l’aereo delle nove”.

Zaira in quel momento aveva la testa e il cuore da un’altra parte. Parigi?…cosa le importava di andare a Parigi quando voleva solo rivedere Vito…rimase in silenzio davanti al ricevitore dal quale, subito dopo, uscì la voce agitata di Alex:

“Non vorrai tirarti indietro. Se lo fai ci rovini…abbiamo mandato le tue foto e i francesi vogliono conoscerti. Anzi, ti stanno aspettando e se non vieni ci metti in gravi difficoltà”.

Lei si sentì come in gabbia: 

 “Dammi qualche minuto per pensare, te ne prego”, supplicò.

L’altro, di malumore, l’accontentò:

“Fra dieci minuti ti richiamo….ma vedi di decidere per il sì, sai che possiamo rovinarti…”, minacciò.

Zaira sorrise, quel ricatto non la riguardava più, aveva deciso di smettere di fuggire e voleva tornare a credere in se stessa, come aveva sempre fatto.
Frugò nella borsa e cercò il numero della caserma di Vito e lo compose, aveva l’animo in pace ma nello stesso tempo si sentiva emozionata e quando chiese del capitano Lombardi le tremava la voce.

Qualcuno le rispose che il capitano era appena partito e non poteva dirle quando sarebbe tornato.

Delusa, sentì che il coraggio, che fino a quel momento l’aveva sostenuta, stava andandosene…era di nuovo sola,  in balia della colpa che non aveva commesso e nessun altro all’infuori di Vito poteva aiutarla. Si lasciò cadere sul letto fissando il vuoto. Di lì a poco si rifece vivo Alex:
“Va bene”, rispose lei rassegnata, “verrò con voi”.

 Vito stava percorrendo l’autostrada del sole in direzione Milano; alla guida, Gargiulo cercava di mantenersi calmo, mentre  il suo comandante era  visibilmente nervoso:
“Più in fretta”, sollecitava ogni dieci minuti.

“Non posso capitano…non vorrà che proprio noi superiamo i limiti di velocità”, si limitava a rispondere.

“Va bene…va bene…”, borbottava Vito, “ non arriviamo mai!”.

Viaggiarono tutta la notte, si fermarono solo qualche volta per sgranchirsi le gambe, e arrivarono all’alba a Milano.

Fecero colazione in un bar appena aperto: Gargiulo stava ancora bevendo il cappuccino quando Vito gli fece fretta:

“Non hai ancora finito? Dobbiamo andare”.

“Ma…il cornetto…non l’ho ancora mangiato”, borbottò il poveretto posando malinconicamente la brioche sul piattino.

Vito si recò immediatamente alla caserma Montebello di via Moscova, dalla quale era partito qualche anno prima per essere destinato al sud, e nella quale aveva ancora tanti amici. Lo accolsero tutti con entusiasmo:

“Come mai a Milano?…cosa ti sta succedendo?”, gli chiesero facendo crocchio attorno a lui. Vito spiegò il perché aveva intrapreso quel viaggio, ovviamente senza specificare che era innamorato della latitante (sicuramente i colleghi non avrebbero né capito né condiviso l’anomala circostanza) e chiese aiuto per ritrovare Zaira.

“Ti rendi conto che gli indizi che hai sono piuttosto labili?, A Milano è come trovare un ago nel pagliaio”, gli risposero.

“Ragazzi… chiedo la vostra collaborazione perché so che questa donna è innocente ed è fuggita solo perché non ha avuto fiducia nella nostra giustizia…si è sentita considerata come una delinquente solo per il fatto di essere un’extracomunitaria”, sbottò Vito, “le informazioni sono poche, è vero, ma la pista, seppur tenue, mi ha portato qui…farò di tutto per trovarla”, affermò cocciuto.

Il maresciallo  Santoro si alzò: “Va bene capitano, ci mettiamo a disposizione”, disse battendo i tacchi.

Attraverso i vari canali d’informazione  venne rintracciato l’agente che aveva fermato l’auto con la persona sospetta a bordo, riconosciuta sommariamente dall’identikit che Vito aveva fatto pervenire alle varie forze dell’ordine.

Il capitano lo sottopose a un vero e proprio interrogatorio, il giovane era rosso come un peperone. Dopo una raffica di domande alle quali il poliziotto tentò di rispondere nel migliore dei modi, Vito sbottò::
“Hai notato almeno se la ragazza aveva un neo sopra il labbro sinistro?”, chiese pensando alla bella bocca di Zaira che aveva baciato mille volte. Quel neo non lo poteva dimenticare.

   Il ragazzo ci pensò e poi rispose:
“Non ne sono molto sicuro, ma credo di sì…”.

“Allora perché non l’hai fermata?”, s’innervosì Vito.

“Capitano…i documenti della donna erano regolari, risultava cittadina americana e , nel dubbio, l’ho lasciata andare”, rispose il ragazzo confuso.

 “Complimenti…Adesso non possiamo che andare a cercare gli altri due. Voglio andare a fondo di questa faccenda al più presto”.

                                                                                                                     (continua)

sabato 10 ottobre 2015

L'ORCHIDEA NERA quarta puntata




Rannicchiata nello scompartimento del treno Zaira osservava i compagni di viaggio: una donna grassa che non le toglieva gli occhi di dosso, un ragazzo che leggeva un libro e un signore ben vestito, sulla cinquantina,  immerso nella lettura di un quotidiano. Con lo sguardo perso nel vuoto pensava all’assurda vicenda che stava vivendo, ma soprattutto ricordava quando, con il cuore gonfio di amarezza aveva lasciato Vito addormentato , …aveva fatto la cosa giusta? Sicuramente se fosse rimasta l’avrebbe aiutata a togliersi dai pasticci… ma in quel momento era stata presa dal panico e il solo pensiero di doversi discolpare di qualcosa che non aveva commesso, l’aveva terrorizzata.  Chissà se l’avrebbe rivisto? Il suo amore era appena cominciato ed era subito finito. Vito sarebbe rimasto nel suo cuore per sempre…nessuno prima di lui le aveva suscitato una passione così intensa, con lui aveva provato emozioni che non poteva dimenticare ; guardava fuori dal finestrino il paesaggio che sfuggiva: dove stava andando? Aveva preso quel treno in partenza senza nemmeno sapere dove era diretto.  Aveva i nervi tesi allo spasimo, si sentiva come una preda braccata, aveva paura  che arrivasse il controllore da un momento all’altro e lei era senza biglietto. Ogni tanto sbirciava… pronta a chiudersi nella toilette al momento buono.

. L’uomo seduto davanti a lei cambiò pagina del giornale, un titolo la fece sobbalzare: “Misteriosa morte di un medico, sospettata la colf di colore”. Quel tale che stava leggendo abbassò il foglio e le lanciò un’occhiata. La ragazza girò la testa verso la porta, poi si alzò e andò in corridoio. Lo sguardo dell’uomo non l’abbandonava, seguiva ogni sua mossa. Zaira cercò posto in un altro scompartimento: purtroppo erano tutti occupati, decise perciò di rimanere in piedi, vicina all’uscita per poter eventualmente scendere alla prima fermata. Si appoggiò al finestrino e fissò lo sguardo sul panorama che  fuggiva velocemente; dopo qualche minuto  avvertì qualcuno dietro di sé.

Si sentì toccare un braccio, si voltò: il tipo che prima leggeva il giornale la stava fissando:

“Hai caldo?”, chiese.

“Un po’’”, rispose lei senza voltarsi.

“Come mai ti sei alzata?”, insistette il suo interlocutore.

“Volevo sgranchirmi le gambe", rispose sottovoce.

Lo sguardo dell’uomo la percorse da capo a piedi e un lieve sorriso gli increspò le labbra. “Da dove vieni?”, continuò.

La giovane donna alzò le spalle:

“Non so perché mi fa tutte queste domande”, rimbeccò seccata.

L’altro non fece tempo a rispondere: il controllore aveva aperto la porta e si accingeva a chiedere i biglietti. Zaira  ebbe un moto di panico. Il ferroviere se ne accorse: “Biglietto, prego”, disse squadrandola. Lei rimase paralizzata e non rispose, lo sconosciuto che stava assistendo alla scena si intromise:

“Il mio è questo”, affermò mostrando il cartoncino, “lei non ha fatto in tempo a farlo…lo possiamo fare ora?”.

“Certo…dove andate?”, rispose il ferroviere con un sorrisino.

 “A Milano”, rispose pronto l’uomo. Zaira lo guardò sorpresa ma preferì tacere.

“Non ti preoccupare”, le disse ancora quel tale non appena il controllore se ne fu andato, “ho visto che eri in difficoltà e ho cercato di darti una mano”.

“Ma…perché?…”, balbettò lei.

“Non ci pensare, avrai modo di rendermi il favore”, affermò l’uomo malizioso. La ragazza si ritrasse:

“No…mi lasci stare”, disse impaurita. L’altro si avvicinò e la fissò in viso:

“Non è ciò che pensi, stai tranquilla, tu sei quella che cerco da tempo…”.

Zaira era sempre più preoccupata: cosa voleva quel tipo da lei?. Cercò di andarsene ma lo sconosciuto glielo impedì mettendo un braccio fra lei e lo sportello del vagone.

“Ti prego, non scappare…ho capito che hai dei problemi, probabilmente stai fuggendo da qualcosa o qualcuno…ma io non voglio sapere niente, ti voglio solo aiutare”, disse lui con fare benevolo, “sono Giorgio Valenti dell’agenzia  Publi Fashion, stiamo cercando una ragazza per una campagna pubblicitaria. Appena ti ho vista, ho pensato subito che tu sei quella donna….sei giovane, un corpo e un viso bellissimi…abbiamo fatto centinaia di provini  inutilmente.  L’averti incontrata è stato un miracolo, gli affari non vanno molto bene e firmare questo contratto sarebbe la nostra salvezza…si tratta di milioni di Euro, sta sfumando proprio perché non c’è l’immagine giusta…” . Quell’uomo parlava concitato, e Zaira lo seguiva in silenzio. Le sembrava di ascoltare una favola…

“Come posso crederle?”, chiese titubante, poteva fidarsi di uno sconosciuto incontrato per caso?

Giorgio Valenti  le mostrò i documenti:

“Ti prego, vieni con me…facciamo un patto: se tutto quello che ho detto non è vero, sei libera di andartene, ma in questo momento  ti chiedo di aiutarmi”, c’era ansia nella sua voce  ma  sembrava sincero.

“Non posso risponderle subito, ho bisogno di pensarci”, tagliò corto Zaira: quell’uomo la metteva in confusione.

 Riluttante tornò a sedersi nello scompartimento ma era sempre sulla difensiva, non aveva più detto una parola. Aveva tanta paura, ma se si voltava indietro c’era la prigione…le conveniva tentare, chissà…forse quel tipo diceva la verità. Se fosse stato vero ciò che le proponeva  poteva dire di avere incontrato la fortuna. Sbirciava ogni tanto l’individuo  seduto davanti a lei e ogni volta il dubbio si affacciava nella sua mente. Si impose di non pensare, si lasciò andare al dondolio del treno e in breve le palpebre divennero pesanti e si addormentò.

 

Intanto il capitano Lombardi non aveva dato tregua ai suoi ragazzi, li aveva mandati dappertutto in cerca della fuggitiva senza nessun risultato, più il tempo passava e più la speranza di ritrovarla si affievoliva, ma dentro di sé era convinto che l’avrebbe trovata, non importava quando… prima però, doveva fare luce sul delitto carico di ombre nel quale era stata coinvolta senza aver commesso nulla… Le indagini erano ad un punto fermo, l’unica testimonianza era quella di Marisa che continuava ad incolpare Zaira. Voleva vendicarsi degli sguardi carichi di desiderio che il marito lanciava a quella  splendida ragazza color caffelatte che girava per casa…aveva capito che, quella sera,  Claudio aveva tentato di abusare di lei ed era presente quando era precipitato dalle scale nel tentativo di raggiungerla. Però, proprio per questo, lei doveva pagare…suo marito non l’aveva mai guardata così, non aveva mai visto nei suoi occhi quella fiamma che li rendeva lucidi….Quante volte si era vista  allo specchio il suo corpo secco, la sua faccia segnata dalle notti passate a pensare e l’invidia contro quella giovane che aveva dalla natura ciò che a lei era stato negato, le mangiava l’anima.  Nella sua mente sconvolta aveva architettato con freddezza la storia del furto, determinata ad accusare implacabilmente Zaira, colpevole solo di essere troppo bella. Peccato che fosse scappata…ma non poteva andare troppo lontano, prima o poi l’avrebbero presa ed allora la sua vendetta si sarebbe compiuta.

Vito aveva interrogato più volte Marisa sperando che cadesse in qualche contraddizione, ma la donna ripeteva la sua versione dei fatti sempre nello stesso modo, quasi con le stesse parole, come se avesse imparato a memoria una lezione da non dimenticare. Il capitano Lombardi si chiedeva perché quella donna continuasse a mentire, senza la presenza di Zaira non poteva contestare la sua deposizione. Cercava di tenderle dei tranelli, ma lei era diabolica: riusciva sempre a cavarsela … Per Vito quei giorni diventarono un incubo, dovette assistere impotente alla decisione presa dal giudice di spiccare mandato di cattura per la sua donna accusata di omicidio.

 

 L’Eurostar  era arrivato a Milano. Valenti si alzò e tirò giù la valigia:
“Tu non hai bagaglio, vero?”, chiese a Zaira ancora seduta.

La ragazza scosse il capo: “No…”, mormorò.

“Andiamo…ci penseremo dopo”, disse lui aiutandola ad alzarsi, “allora siamo d’accordo…vieni con me?”, aggiunse con l’aria preoccupata di chi potrebbe sentirsi dire di no.

Zaira si guardò intorno smarrita: i passeggeri stavano invadendo il corridoio per scendere dal treno, non sapeva cosa fare…si sentì sola, disorientata, stava entrando in una città che non conosceva….l’unico debole punto di riferimento era quell’uomo che aveva davanti del quale non sapeva nulla ma che le aveva promesso un lavoro.

“Allora?”, incalzò Valenti, “fidati, non ti ho raccontato balle…”. La giovane acconsentì con un cenno e si avviò all’uscita.  Travolta dalla marea di gente che si avviava allo scalone, Zaira, seguiva il suo accompagnatore che, con passo deciso si faceva largo fra la folla. Scesero con la scala mobile e si misero in coda per prendere un taxi.

Attraversarono la città, per Zaira era tutto nuovo: osservava stupita quell’agglomerato di case e il  fiume di auto che ingorgava le strade. Sempre più preoccupata se ne stava rannicchiata in silenzio accanto al suo accompagnatore.

 Dopo quasi mezz’ora il taxi si fermò davanti a una casa sul Naviglio, una delle tante della vecchia Milano affacciate sul canale in cui l’acqua torbida scorreva lenta. La giovane  scese dalla vettura con il cuore che le batteva forte: non sapeva dove sarebbe andata e la paura le attanagliava lo stomaco. Si guardò intorno,  il suo primo impulso fu di scappare…Valenti stava pagando il taxista, si voltò e fu preso dal panico: lei non c’era più.

“Non può essere andata lontano”, si disse, “era qui un attimo fa”.

Cercò con lo sguardo fra i passanti e il suo animo si allargò: la vide che stava svoltando in fretta l’angolo di una via a pochi metri di distanza. Corse e la raggiunse, la prese per un braccio:
“Dove vai?….avevi detto di sì, ti prego, vieni con me, siamo arrivati, vedrai  che quello che ti ho detto è la verità”, supplicò.. Zaira lo guardò e le sembrò sincero. Sempre senza dire una parola lo seguì. Entrarono in un grande cortile: su una porta a vetri  spiccava una targa d’ottone : “Publi Fashion. Agenzia di pubblicità.”.

“Ragazzi”, esclamò entrando l’uomo, “guardate chi vi ho portato”.

 Nel grande locale con tavoli da disegno e computer cinque uomini stavano lavorando,  tutti alzarono contemporaneamente la testa, molti occhi si puntarono sulla ragazza  intimidita. Un giovanotto si avvicinò:
“Salve”, disse allungando la mano destra, “sono Alex…posso dire che sei un miracolo?”. La guardò da capo a piedi e si rivolse a Valenti: “Dove l’hai scovata? …è proprio lei, la nostra donna…l’orchidea nera!”.

“E’ una storia complicata…poi te la racconterò, sono contento che anche tu l’abbia riconosciuta…ragazzi, siamo salvi, stasera tutti in pizzeria a festeggiare”, propose allegramente Valenti, “e domani subito al lavoro, il tempo stringe”.

Zaira era frastornata, nei suoi grandi occhi si leggeva lo stupore, non capiva nulla di quello che stava succedendo: sembrava parlassero in codice. Il ragazzo che si era presentato le toccò un braccio:

“Vieni…come ti chiami?”, chiese gentilmente. La giovane somala si ritrasse, Valenti intervenne vedendola in difficoltà:

“Alex, non ha importanza, se hai un attimo, vieni di là che ti spiego come sono andate le cose”, disse trasportando letteralmente il suo socio in un’altra stanza. Tornarono dopo qualche minuto:

“Per me non c’è nessun problema, se non hai i documenti te li procureremo”, affermò il giovanotto.

Zaira non aveva ancora detto una parola: era sempre sulla difensiva, non capiva quell’ambiente e tanto meno capiva quello che avrebbe dovuto fare. Alex, che sembrava il più comprensivo la fece accomodare in un ufficio, si mise dietro la scrivania:
“ Penserai che siamo pazzi…Giorgio mi ha raccontato come vi siete conosciuti…io non voglio sapere niente di te, ma in questo momento, credimi, non siamo noi che ti diamo una mano, sei tu che ci stai aiutando”.

“Non capisco”, balbettò Zaira.

“Come ti ha già spiegato Valenti abbiamo firmato il contratto per una campagna pubblicitaria e non riuscivamo a trovare la testimonial per il profumo “Orchidea Nera” di una famosa casa di moda francese. I termini stavano per scadere e l’immagine che ci serviva era introvabile… nei nostri pensieri c’era un tipo di donna dalla pelle ambrata, con il tuo viso, i tuoi occhi e il tuo corpo…insomma tu!”, concluse puntandole addosso l’indice.

Zaira, dopo le affermazioni di Alex, capì finalmente cosa si voleva da lei: l’uomo del treno aveva detto la verità.

“Mi dispiace”, disse a malincuore, “non posso …”. Accettare quel lavoro significava mettersi in mostra, rendersi visibile a tutti, mentre tentava disperatamente di nascondersi. Era stato crudele lasciare Vito addormentato, la sua immagine l’aveva sempre davanti agli occhi, aveva lasciato l’amore per scegliere la libertà…

Alex balzò sulla sedia: “Come non puoi…ti pagheremo bene, potrai farti un bel gruzzolo in pochi giorni”, esclamò. Ci pensò su qualche secondo poi disse una cifra .

La ragazza spalancò gli occhi: “Come ?”, domandò incredula: con quella somma avrebbe risolto i mille problemi per i quali era stata costretta a lasciare la sua famiglia, poteva inviare dei soldi e farli stare bene…

“Se vuoi possiamo anche aumentare…”, continuò il ragazzo sulle spine.

“No…non è possibile”, rispose lei, “non è questione di denaro”.

“Ho capito che sei nei pasticci”, affermò il giovanotto benevolmente, “se vuoi parlarmene forse ti potrò aiutare…”.

Zaira era come bloccata, si tormentava le mani nervosamente, avrebbe voluto dire tutto, ma non si fidava, aveva paura. Si alzò dalla sedia e si avviò verso la porta: “Ti prego, lasciami andare, non posso rimanere qui…”, dai suoi occhi spaventati Alex capì che sarebbe stato molto difficile convincerla a restare.

L’uscio si aprì ed entrò Valenti con un giornale in mano: lo stesso che stava sfogliando in treno:
“Guarda qui”, disse sottovoce all’amico, “potrebbe essere lei…è salita , senza bagaglio e senza biglietto …avevo già avuto il sospetto da come si comportava durante il viaggio”. I due uomini si girarono e puntarono lo sguardo sulla giovane donna che si sentì in gabbia.

Valenti le mostrò il foglio con l’articolo che la riguardava: “Sei tu?”, domandò accusatorio.

Lei negò scuotendo il capo, ma dall’espressione smarrita i due capirono che avevano fatto centro.

 Valenti cambiò atteggiamento, diventò gentile, quasi paterno,  la scostò dalla porta e l’accompagnò di nuovo alla sedia. 

“Ascoltami…tu non ti devi preoccupare, la campagna pubblicitaria uscirà per prima in Francia…qui non ti vedrà nessuno, mi devi credere, abbi fiducia in me…in fin dei conti si tratta solo di qualche settimana e, se tutto andrà liscio, dopo potrai andartene dove vuoi”, pronunciava le parole adagio, come se avesse paura di spaventarla. Zaira lo stava ascoltando e pensava che se era vero, poteva accettare quel lavoro inaspettato che le avrebbe permesso di vivere …e forse di difendersi.

“Va bene…”, mormorò suscitando l’entusiasmo dei due uomini.

“O.K…sei meravigliosa”, esclamò Alex, “e adesso subito al lavoro”.

La condussero in uno studio fotografico dove un tipo tutto baffi e capelli le venne incontro.

“Vieni, tesoro, farò di te una stella!”, scherzò, le alzò il mento e l’osservò a lungo. Lei si ritrasse.

“Non ti spaventare, questo è Pierre, il nostro mago del trucco…è un tipo un po’ originale, ma sa il fatto suo…vedrai, dopo non ti riconoscerà più nessuno, nemmeno

tua madre”, affermò Valenti, “ti lasciamo nelle sue mani…coraggio”.  Le lanciò uno sguardo d'intesa, sorrise e uscì socchiudendo la porta.     


                                                                                                                    
                                                                                                              (continua)