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mercoledì 26 febbraio 2014

COLPO GROSSO A MONTECARLO






 

 Un sole pulito scaldava la giornata invernale, sotto, il mare luccicava d’azzurro. Il rombo potente della Lamborgini gialla riempì l’aria,  Eva e James, a bordo del bolide sulla  Moyenne Corniche,  stavano iniziando la discesa verso Montecarlo.

La ragazza abbassò il volume della radio, si stirò, si tolse i grandi occhiali scuri, sbatté più volte le palpebre sugli occhi verdi:

«Meno male che siamo arrivati», disse sbadigliando.

«Dovresti stare sveglia, mia cara, ricordati che stanotte sarà bianca», rispose lui concentrato sulla guida.

Poco dopo erano davanti all’imponente facciata Liberty del Grand Hotel Hermitage. Un fattorino si precipitò a prendere i bagagli, un altro posteggiò la vettura in garage mentre l’elegante coppia entrava nella hall dove si respirava l’atmosfera ottocentesca del favoloso mondo della Belle Epoque. La locandina  sulla colonna di marmo, informava che nella sala adiacente erano in mostra i gioielli di una famosa attrice, fra cui “Sirio”, il diamante più grande del mondo.

«Ben tornati signori, avete fatto buon viaggio?», si informò premurosamente il consièrge, con un sorriso stampato sul viso, dietro il lussuoso banco della reception.

«Ottimo Paul, la camera è sempre quella?», rispose James.

«Certamente, il ragazzo vi accompagnerà», disse l’uomo porgendo le chiavi a un ragazzetto smilzo che li precedette verso l’ascensore, salirono in silenzio, percorsero il lungo corridoio e il giovanotto aprì la porta della camera 128 al primo piano dell’edificio:

«Buon soggiorno», farfugliò allungando una mano per la mancia.

Eva si precipitò ad aprire la finestra: la visione del porto la riempì di gioia:

«E’ sempre una città affascinante, sono contenta di essere qui», mormorò sognante, «ricordo che la volta scorsa abbiamo vissuto momenti indimenticabili, vero amore?».

Lui sorrise: «Certo che ricordo, però adesso devi concentrarti, quella era stata un’incursione per studiare il colpo, non ti dimenticare che siamo qui per lavorare».

La giovane donna, delusa dal tono sbrigativo rispose seccata:

«Ho capito! E’ la seconda volta che mi richiami all’ordine…in fin dei conti sono la tua donna e vorrei che lo tenessi presente. Lasciami sognare ogni tanto».

James si avvicinò e le prese il viso fra le mani:

 « Lo sai che ti amo», e le stampò un bacio sulla bocca. Tacitata dal gesto affettuoso Eva si rasserenò:

«Sono pronta, cominciamo».

«OK, informati da Paul se questa notte c’è Alain, il solito portiere, l’ho già contattato, ma devo esserne sicuro. Ora ci facciamo una doccia, ci cambiamo, andiamo a visitare la mostra, poi ci mettiamo in azione», affermò James.

Quando scesero erano splendidi, ambedue alti, biondi, belli; lei indossava un abito d’alta moda, e lui era in jeans e maglione, ma di quelli griffati.

Eva si fermò davanti alla reception:

«Stanotte c’è lo stesso portiere?», chiese disinvolta a Paul.

« E’ sempre lui, però mi ha appena telefonato che ha avuto un contrattempo, ci sarà domani».

«Questo non ci voleva, ci costringe a rimandare», brontolò James allontanandosi.

I gioielli sfavillavano nelle teche di cristallo infrangibile, diademi, anelli bracciali, colliers favolosi con pietre preziose che facevano sognare le signore presenti.  Ma ciò che interessava James era il diamante che aveva il nome della stella più luminosa del firmamento: “Sirio” che splendeva nella vetrinetta centrale, ben custodita da una ragnatela di raggi infrarossi che ne impedivano l’avvicinamento. A meno di mezzo metro di distanza scattava un allarme sonoro.

Eva e James rimasero in osservazione per qualche minuto, poi continuarono la visita, ma tornarono ancora per riprendere con una fotocamera nascosta ogni particolare della preziosa bacheca, per rivedersela in privato e studiare le mosse per effettuare la rapina.

Mentre stavano tornando in camera, telefonò Alain, il portiere di notte:

«Mi dispiace, mia madre sta molto male, devo andare da lei in ospedale…domani notte ci sarò», disse concitato a James che aveva preso la chiamata.

«Ricordati che devi fare il lavoro che hai promesso, poi sarai ben ricompensato, non ti tirare indietro, altrimenti te la farò pagare», rispose lui minaccioso.

Interruppe la conversazione:

«Speriamo che non ci faccia un brutto scherzo, se non c’è lui non possiamo fare niente, deve staccare l’allarme per qualche minuto, poi interveniamo noi», mormorò preoccupato

«Vedrai che andrà tutto bene», lo rassicurò Eva, «non ci pensare! Adesso però dimostrami che mi ami, portami a ballare, poi abbiamo tutta la notte per noi».

James non si poté sottrarre, come sempre, al fascino di quegli occhi verdi come uno degli smeraldi che aveva appena visto brillare nei colliers racchiusi nelle bacheche.

E quella sera Eva era stupenda nel suo abito da sera, ballò con lui, sensuale come non mai, il suo corpo morbido era avvinto al suo, sulla pista del night al suono di una romantica melodia:

«Torniamo in albergo»,  le sussurrò improvvisamente, preso dal desiderio di lei.

Per la prima volta non pensarono al colpo che dovevano fare, si concessero all’attrazione dei sensi, dimenticando tutto il resto, poi rimasero abbracciati ad aspettare il sonno.

«Ho sete», disse Eva stirandosi come una gattina, « nel frigo ci deve essere qualcosa da bere».

Tornò con due bottigliette già aperte: «Dai, fammi compagnia», disse invitante.

James spense l’arsura con la bibita fresca, strinse a sé ancora una volta Eva e si addormentò felice.

 Si svegliò la mattina dopo con un  cerchio alla testa:

«Devo essere in forma oggi, non mi posso permettere di stare male», si disse. Ingoiò un antidolorifico, si alzò e si buttò sotto la doccia. Dopo qualche ora era pronto per prepararsi alla notte che l’avrebbe fatto diventare ricco come uno sceicco arabo.

Ma durante la giornata aveva i nervi tesi, stava affrontando una dura prova e si augurava che tutto andasse per il verso giusto e quando arrivò il momento non vedeva l’ora di mettersi all’opera.

 Alain,  puntualmente aveva preso il posto di Paul ; la sala dove erano esposti i gioielli era stata chiusa già dalle diciotto del pomeriggio, l’allarme con i raggi infrarossi era stato innescato. Tutto era nella norma, nessuno sospettava che qualcuno sarebbe entrato per rubare “Sirio”.

Anche nel Grand Hotel arrivò la notte, molte luci si spensero, nella hall e  nelle camere scese il silenzio.

Erano le due di notte, Eva e James indossarono le tute nere, aderenti al corpo come una seconda pelle, la loro camera, al primo piano era sopra la sala della mostra, si misero un’imbragatura , uscirono dalla finestra e scesero lungo la parete del retro dell’Hotel, appesi ad una corda ancorata con un gancio di massima sicurezza ad una sporgenza. Con un piede James scostò la vetrata del salone,  precedentemente aperta da Alain e saltò all’interno, seguito da Eva. Con la pila si diressero verso il loro obiettivo, però, prima di avvicinarsi comunicarono con il portiere attraverso un trasmettitore per non lasciare traccia sul telefonino. Questi staccò l’allarme, raccomandandosi di agire entro pochi minuti, prima che qualcuno se ne accorgesse.

Con cautela, movendosi come felini in agguato, aprirono con un congegno elettronico la teca e delicatamente James prese il diamante dalla custodia di velluto blu; lo strinse nel pugno e lo passò a Eva. Si era concluso tutto in pochi minuti, avvertirono il portiere e risalirono con la corda fino in camera. Appena misero piede nella stanza, si tolsero le tute, si abbracciarono ridendo, ancora una volta avevano vinto insieme.

«Fai la valigia, andiamocene, prima che scoppi la bagarre. Domani potrebbero perquisire le camere, e noi saremo già lontani», disse James.

Poco dopo attraversavano la hall sotto gli occhi quasi ammirati di Alain:

«Ecco il tuo compenso, ci vivrai bene per qualche anno…au revoir!», disse James allungandogli una busta zeppa di banconote.

Scesero in garage, salirono sulla Lamborghini e, lasciarono velocemente  il Principato di Monaco.

Sulla potente vettura gialla arrivarono in poche ore a Parigi, stanchi ma soddisfatti entrarono nel loro appartamento nei pressi della Tour Eiffel, posarono i bagagli, e James  trasse da una custodia il brillante grosso come una  nocciola e l’osservò a lungo emozionato:

«Ce l’abbiamo fatta! Non ci prenderanno mai, nessuno sa i nostri veri nomi, tutti i documenti sono falsi. Con quello che ricaviamo da “Sirio”, potremo andare alle Seychelles a riposarci, poi a Miami…che ne dici?», James era euforico, strinse a sé Eva in uno spasmodico abbraccio.

 «Domani dovrò ripartire per Amsterdam, ho appuntamento con quel tale che vuole comprare il diamante, tu aspettami qui, poi decideremo dove andare».

«Va bene, amore, ti attenderò con ansia», scherzò porgendogli la bocca.

Il giorno dopo James affrontò ancora un lungo viaggio verso l’Olanda, arrivò ad Amsterdam che stava finendo la giornata, ma aveva tanta fretta di concludere quell’avventura che telefonò immediatamente al ricettatore e insistette per essere ricevuto in serata. Entrò nell’elegante casa di mister  Van Lerner che lo accolse con entusiasmo facendolo accomodare nel suo studio.

«Complimenti, come sempre hai fatto un bel lavoro…vediamo questa meraviglia, ti confesso che c’è in me una certa emozione, non tutti i giorni mi capita di avere fra le mani una pietra così», disse accogliendo dalle mani di James il diamante.

Con la lente inserita nell’occhio sinistro si accinse a valutare “Sirio”, ma la sua espressione cambiò dopo pochi secondi, il suo viso si accigliò:

« Ci conosciamo da tanto tempo, non fare il furbo con me, non attacca», sbottò, «dove vuoi arrivare? Non compro e non vendo pietre false, e questo caro mio, è un fondo di bicchiere!».

«Cosa hai detto? Ti stai sbagliando, non può essere…!»,  James sentì il sangue scivolargli via dalla testa, quasi stava per svenire. «Stai scherzando? Dimmi che stai scherzando», bisbigliò esterrefatto.

 «No James, mi dispiace, purtroppo non mi sbaglio mai. Se vuoi, puoi farlo valutare da un altro esperto, sempre nostro amico s’intende», affermò , « ti confesso che sono deluso, stavo aspettando questa pietra con ansia ed ora…te la rendo», riconsegnò il diamante a James rimasto senza parole.

«Come è potuto succedere?» si stava chiedendo distrutto, mentre si allontanava dalla casa di Van Lerner, «potrebbe essere stato Alain…ma é un ometto senza coraggio, ha accettato di essere complice del furto per quattro soldi, e non poteva vendere quel gioiello, soltanto un ladro internazionale come me, che conosce le persone giuste in ogni parte del mondo può farlo». Aveva la testa che fumava, avrebbe dato qualsiasi cosa per trovare chi aveva sostituito la pietra.

Con angoscia rimontò sulla Lamborghini e riprese la strada per Parigi; là  voleva andare a fondo del mistero. Cercò di telefonare alla sua ragazza, ma non ebbe risposta: il telefono suonava a vuoto..

 

In quello stesso momento Eva, a bordo di un aereo diretto a Miami, stringeva in pugno l’originale “Sirio”, il diamante più grosso del mondo e sorrideva pensando a James.

«Te l’ho fatta, amore mio, hai sempre creduto che fossi un’aiutante senza iniziativa, ti ho voluto dimostrare che so fare a meno di te…ti invierò una foto dalla spiaggia di Miami, sdraiata sotto un ombrellone».

E mentre sorrideva riviveva il momento del furto: sapeva benissimo che quello che stava per rubare insieme a James, era un falso perché la notte precedente, era stata proprio lei che l’aveva sostituito.

 Ancora prima di partire da Parigi per Montecarlo, si era messa d’accordo con Alain, il portiere di notte del Grand Hotel Hermitage :

 «Ti farò diventare ricchissimo, però mi dovrai aiutare. James vorrebbe agire la notte stessa del nostro arrivo, ma non ti farai trovare, perché io avrò bisogno di te».

Ricordava quando aveva usato le arti migliori della seduzione per indurre James a tornare in albergo e poi, la bibita che gli aveva dato in cui aveva messo un potente sonnifero. Così, indisturbata e con l’aiuto di Alain, aveva sostituito il diamante vero con quello falso, che si era portata da Parigi.

James  arrivò a casa, abbattuto come un cane bastonato.

«Eva…è successa una cosa incredibile!», gridò entrando , «Eva…dove sei? »,  la sua voce si perdeva nel nulla, la casa era vuota. Si aggirò per le stanze sconcertato, in quel momento il telefonino gracchiò: era arrivato un messaggio.

«Ciao James, guarda la foto che ti sta arrivando, sono a Miami, ma non sono sola, sono con “Sirio”. Amore mio, non arrabbiarti, volevo soltanto dimostrarti che l’allieva ha superato il maestro. Vieni, ti aspetto…ti amo, Eva».

Per James quella foto fu la più grande sorpresa della sua vita, però mentre guardava la sua donna in bikini sorrise e pensò che  era degna di lui e…che non la voleva perdere per nessuna ragione al mondo: prenotò subito un posto su un volo per la Florida.

 FINE
 

venerdì 21 febbraio 2014

FINALE " UNO SPARO NELLA NOTTE"


«Dai miei informatori, ho saputo che Viviani ha acquistato una pistola da un tale, proprio il giorno prima del delitto», disse tutto d’un fiato.

«Allora è stato lui», sussurrò fra sé il commissario, poi riprese: «ottima notizia…ora ci penso io».

Posò il bicchiere di vino sul tavolino del salotto e telefonò al giudice delle inchieste preliminari per avere l’autorizzazione ad arrestare l’idraulico.

Il giorno dopo Viviani era in cella in attesa di essere interrogato ufficialmente dal GIP.

Alex Parisi aveva tirato un respiro di sollievo: c’era un colpevole che non aveva alibi per la notte dell’omicidio, c’era un movente importante ed era spuntata anche l’arma del delitto. Si poteva dire: “Bingo!”

 Ma la risposta dell’indagato agli innumerevoli e sfibranti interrogatori era sempre la stessa:

 “Non sono stato io”.

Comunque doveva sempre rispondere alla fatidica domanda «perché hai comprato al pistola?», e la risposta che doveva giustificare l’acquisto dell’arma era sempre quella:

« Volevo ucciderlo, ma non ne ho avuto il coraggio, ringrazio quel tale che l’ha fatto per me».

 Anche se Parisi era abituato a ricevere risposte simili da presunti colpevoli , questa ostinazione a negare avrebbe potuto essere indice di una verità ancora nascosta che doveva in tutti i casi essere scoperta.

 Quell’uomo era il principale sospettato ma il commissario  era troppo scrupoloso, prima di commettere un errore voleva essere sicuro di quello che stava facendo, perciò non smise di indagare, anzi, ordinò alla sua assistente di continuare le indagini.

Quella mattina Parisi si era appena seduto alla scrivania quando entrò la Caputo, lui la fulminò con lo sguardo.

 «Dottore, ho la registrazione dei funerali del chirurgo, vuole vederla?»

«O.K. vediamola insieme, potrebbe essere interessante», e si accinse ad assistere con l’intenzione di osservare scrupolosamente i partecipanti: non si sa mai.

Le immagini della mesta cerimonia si avvicendavano sul video, la moglie in lacrime, parenti, colleghi, e molti dipendenti della clinica seguivano il feretro, chiudeva il corteo una giovane donna incinta, con il viso seminascosto da grandi occhiali neri e sul capo un velo portato come le donne arabe. Il poliziotto aguzzò lo sguardo: «Stop… questa ragazza è strana. E’ sola e in fondo alla fila, pare volersi nascondere», disse soprapensiero. Ingrandì la foto, la donna indossava un abito lungo fino alla caviglia: «Sembra una musulmana», continuò scuotendo la testa.

Seguì il filmino con interesse e la rivide al cimitero, seminascosta dietro un albero, immobile fino alla fine del rito. Appena la bara venne interrata, notò che era uscita dal cimitero quasi di corsa. Il commissario aveva l’occhio attento a tutte le sfumature:

«Voglio il nome di quella donna», ordinò alla Caputo che si precipitò fuori per assecondare il suo capo.

Il giorno seguente Loredana arrivò puntualmente con le generalità richieste:

 «Si chiama Amina Mohamed, marocchina, infermiera alla clinica Salus, ora in congedo per maternità», sciorinò l’agente sull’attenti. Parisi chiuse gli occhi per pensare:

«Portamela qui», disse poi, «devo vederla».

Amina si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania di Parisi che, fin da quando era entrata aveva notato la fierezza del suo portamento, anche con il pancione, era una bella donna, aveva la pelle ambrata, il viso dall’espressione intensa come hanno spesso le donne arabe.

«Perché mi ha chiamata?», chiese, si tolse gli occhiali scuri e mostrò gli occhi neri, vellutati.

«Vorrei fare quattro chiacchiere…conoscevi il dottor Guidi?», disse il commissario entrando subito in argomento. La donna non si scompose: «Sì, ero la sua infermiera»,

Parisi, dopo molte domande,  riuscì a sapere che la ragazza non era sposata e che aspettava un figlio da un connazionale. Però c’era qualcosa nel suo sguardo che non gli piaceva, qualche volta era sfuggente come se non dicesse la verità. La lasciò andare ma, da quel colloquio una pulce gli era entrata nell’orecchio e così, ingrandì il suo raggio d’azione. Volle conoscere i tabulati del cellulare di Amina, li osservò attentamente e si disse: “il colpevole non è in prigione, è ancora libero”. Il numero di Guidi compariva spesso, anche il giorno dell’omicidio, mezz’ora prima che venisse ucciso c’era una chiamata verso di lui all’una e trenta di notte. «Caputo, vai a riprendere l’infermiera», ordinò quasi con amarezza, sentiva che c’era qualcosa di drammatico dietro l’apparente imperturbabilità di quella donna: nei suoi occhi neri c’era un’ombra misteriosa.

E anche questa volta Parisi non si sbagliava : la confessione di Amina non  tardò ad arrivare.

«L’ho ucciso perché se lo meritava!...», gridò.

 Lei aveva sparato al dottor Guidi, padre del bimbo che portava in grembo; l’aveva scongiurato di riconoscere il figlio ma era stata respinta, allora, disperata aveva deciso di farsi giustizia da sola.

 Quella notte telefonò al medico minacciandolo di andare a casa sua e vendicarsi sulla sua famiglia armata di pistola. Il dottore, in preda al terrore era uscito precipitosamente dalla clinica per fermarla, ma non sapeva di andare incontro alla morte: appena lo vide Amina sparò.

«Al mio paese i vigliacchi si uccidono», disse alla fine della confessione guardando dritto negli occhi il commissario.

FINE


 

 

venerdì 7 febbraio 2014

UNO SPARO NELLA NOTTE


 

 

Un colpo di pistola ruppe il silenzio della notte e un corpo cadde di schianto sull’asfalto, un’ombra fuggì e scomparve dietro l’angolo della via. Qualche finestra si illuminò, un grido si propagò per tutta la strada.

 Poco dopo l’urlo della sirena squarciò l’aria, un’ambulanza si fermò al limite del marciapiede dove era disteso un uomo.

Adriana stava rincasando, era andata a teatro con un’amica, poi si era fermata a bere qualcosa in un locale; sapeva che suo marito sarebbe rimasto in ospedale per il turno di notte e non aveva fretta. Arrivò nei pressi di casa e notò il capannello di gente che stava osservando qualcosa sulla strada. Posteggiò l’auto e si avvicinò incuriosita: «E’ morto…chiamate la polizia», stava dicendo un medico chino su un corpo. La donna si avvicinò e il cuore cominciò a batterle all’impazzata, aveva riconosciuto il giubbotto di pelle di Mauro. «Lasciatemi passare. E’ mio marito!», urlò con la voce strozzata, ci fu un momento di silenzio, poi gli agenti si scostarono. La donna si buttò sul corpo senza vita piangendo disperata, nessuno osava disturbare il suo dolore, alzò il viso e chiese singhiozzando: «Che cosa è successo?! Chi gli ha sparato?».

«Non lo sappiamo, stiamo aspettando la polizia, siamo appena arrivati. Venga, le do’ un calmante», rispose il medico sorreggendo Adriana che stava per sentirsi male. E in quel momento la vettura azzurra delle forze dell’ordine inchiodò sull’asfalto: un uomo scese e si avvicinò al cadavere, l’osservò attentamente:

 «Chi ci ha chiamato?», disse poi guardandosi  intorno. Si fece avanti un tipo di mezza età:

«Io…», rispose con la voce tremante.

«Commissario Parisi», si presentò quello che era sceso dalla pantera, «mi dica cos’ha visto».

«Sono una guardia giurata e stavo facendo il solito giro di controllo, quando ho sentito un colpo di pistola, poi ho visto qualcuno scappare e salire su un’auto parcheggiata all’angolo, non ho potuto vedere la targa, era buio, mi sono precipitato qui, per vedere cosa era successo».

«Va bene, per ora può andare, lasci le sue generalità e si tenga a disposizione», lo congedò il commissario.

 «Cercate i suoi documenti», ordinò ai suoi uomini accennando al morto.

L’agente speciale Loredana Caputo frugò nelle tasche dell’uomo per terra.

. «E’ il dottor Mauro Guidi, medico chirurgo, e abitava in questa via al numero quaranta», affermò mentre stava prendendo visione della carta d’identità del morto.  

Il commissario si guardò intorno e individuò lo stabile, in quel momento qualcuno gli disse che la moglie della vittima era nell’ambulanza per un malore dopo aver visto il marito ammazzato brutalmente.

 Parisi si avvicinò mentre Adriana stava uscendo ancora pallida e sconvolta.

«Le mie condoglianze, signora», sillabò il commissario che in quelle circostanze non sapeva mai cosa dire. Lei alzò su di lui gli occhi dolenti: «Grazie», rispose semplicemente.

«Capisco che non è il momento, però dovrei farle qualche domanda, ma non qui. Vedo che non si sente bene, potremmo salire in casa sua, così possiamo parlare con calma», disse con tutta la gentilezza di cui disponeva.

Adriana l’accompagnò senza dire una parola:

 «C’è mio figlio Samuel in casa», disse infine  prima di aprire la porta.

 Il ragazzo dormiva, il trambusto in strada non  l’aveva svegliato, si alzò stropicciandosi gli occhi e, vedendo la madre entrare con uno sconosciuto la guardò con aria interrogativa

«Chi è?», chiese. Adriana non rispose subito,  poi con molta cautela raccontò i fatti.

 Samuel apprese così che suo padre era stato assassinato. Contrariamente a ciò che il commissario Parisi si aspettava, il ragazzo non batté ciglio, diventò pallido e, rivolgendosi alla madre mormorò :

««Posso vederlo?».

«Se vuoi scendere in strada prima che rimuovano il corpo, potrai dare l’ultimo saluto a tuo padre», affermò il poliziotto guardandolo fisso in viso. Samuel aprì la porta e uscì senza parlare.

Il commissario seppe da Adriana che il marito era un chirurgo della clinica Salus e che quella notte avrebbe dovuto essere in servizio per questo lei non si spiegava come mai, alle due fosse nei pressi di casa. Alla domanda se pensava che avesse dei nemici, la donna disse semplicemente:

«Non credo, alla clinica gli volevano tutti bene», nella sua voce c’era una sofferenza infinita, rispondeva come se fosse in un'altra dimensione.

Quando uscì da quella casa Alex Parisi aveva le farfalle nello stomaco e un macigno al posto del cuore.

Come capitava sempre, quando c’erano dei casi da risolvere, il commissario entrava in uno stato di perenne agitazione, Loredana  si augurava che tutto finisse presto perché sapeva che il suo capo  diventava intrattabile e rendeva  la vita impossibile a tutti.

 Parisi, in quel caso aveva escluso subito l’aggressione per  rapina perché nel portafoglio trovato nelle tasche del dottore c’era ancora una notevole somma di denaro, e non mancavano né l’orologio e neppure il cellulare. Era senza nessun dubbio un omicidio compiuto per vendetta, o per altre ragioni che ancora non gli erano chiare, ma quello che era certo era che  bisognava trovare il colpevole.

 Diede ordini precisi: interrogare il personale della clinica, indagare sulla vita del chirurgo e della famiglia Guidi in generale… e così la Caputo, come al solito, era in pista tutto il santo giorno a indagare e interrogare chi gli capitava a tiro.

I risultati non si fecero attendere: seppe che il medico qualche giorno prima aveva avuto una forte discussione con il marito di una paziente da lui operata e purtroppo deceduta: l’uomo l’accusava di aver sbagliato l’intervento: «Me l’hai uccisa! », l’avevano sentito urlare, «hai tolto la madre ai miei figli, assassino!». Il chirurgo non aveva avuto la forza di replicare, un’infermiera presente aveva detto che il dottore era diventato pallido e le sole parole che aveva pronunciato erano state: «Non è stata colpa mia….è intervenuta un’emorragia mentre operavo. Ho fatto di tutto per salvarla!»,  poi se ne era andato a capo chino.

L’autore della scenata era  un certo Viviani, idraulico:

«Commissario lo vuole interrogare?», chiese Loredana mettendo sulla scrivania i verbali delle inchieste.

«Certamente! Cosa aspetti…», sbottò lui, «manda subito a prenderlo!»

Poco dopo,  seduto davanti alla scrivania l’uomo non riusciva a stare fermo, la sua gamba sinistra sembrava avesse un tremito, era in continua agitazione, si torceva le mani nervosamente.

Il commissario lo stava fissando da qualche minuto senza battere ciglio, finalmente si decise a fare la domanda di rito: «Dov’era all’ora del delitto? ».

«Ero fuori a camminare, da quando è morta mia moglie non riesco a prendere sonno».

«Allora non ha un alibi», incalzò Parisi.

L’idraulico scosse la testa:

 «E’ così purtroppo…, lui ha ucciso Vittoria, ma io non l’ho ucciso, cercate da un’altra parte, siete sulla strada sbagliata», disse quasi urlando. Era diventato rosso e sembrava sul punto di scoppiare.

«Calmati, Viviani, se non sei stato tu lo vedremo», esclamò innervosito il commissario.

 Poi l’interrogò con accanimento: quel tipo non gli era simpatico, era un irascibile attaccabrighe e poteva essere stato lui. Non aveva alibi, c’era il movente,  mancava l’arma ma con calma si sarebbe  trovata…

Non riuscendo a cavargli nulla  lo lasciò andare: uscendo l’uomo sbatté la porta dell’ufficio dietro di sé.

Non passò nemmeno mezz’ora dall’interrogatorio del presunto colpevole che l’agente Caputo irruppe nel suo ufficio:

«Commissario, guardi qui», esclamò mettendogli davanti un plico.

«E questo cos’è? Devo leggermi tutto il dossier?».

«No, commissario, bastano le prime righe», ribatté la ragazza.

  E, quando il solerte commissario scorse mezza pagina, scosse la testa e si mise una mano sotto il mento in atteggiamento statico, si volse verso Loredana:

«Guarda, guarda… il ragazzo non è figlio del dottore, ma della moglie», sogghignò.

«E sembra anche che non sia uno stinco di santo. E’ già stato indagato perché trovato in possesso di hashish, e i suoi vicini dicono che non era in buoni rapporti con il padrigno, litigavano spesso!», rispose la Caputo.

«Cerca di portarmelo qui al più presto, voglio sentire cosa mi dice questo giovanotto», ordinò il commissario.

Samuel controvoglia, varcò la soglia dell’ufficio di polizia.

«Non andavi d’accordo con tuo padre?», cominciò Parisi rivolto al ragazzo.

Lui lo fissò, le sue labbra si strinsero e il viso assunse un’espressione aggressiva:

« Chi gliel’ha detto, mia madre?», rispose strafottente.

«Stai tranquillo, io so più di quanto credi, allora mi rispondi? E preferisco che tu mi dica la verità, mi sono spiegato?», minacciò il poliziotto.

Samuel ammise di non essere mai stato in buoni rapporti con il chirurgo che lo teneva a stecchetto e pretendeva di inserirsi nella sua vita.

« Non era nemmeno mio padre», si lasciò scappare il ragazzo.

«E tu eri pieno di debiti, giocavi e ti facevi le canne, forse se non ci fosse stato lui avresti potuto spremere meglio tua madre?», azzardò il commissario aspettando una reazione.

Ma l’altro non batté ciglio e scosse la testa:

 «So dove vuole arrivare, non sono stato io, poi  ho un alibi: ero a letto e mi ha visto proprio lei, ricorda?».

« Avevi tutto il tempo di ficcarti sotto le lenzuola e far finta di niente», ribatté Parisi, «Per adesso vai, ne riparleremo», disse congedandolo.

Era già sera e il commissario aveva voglia di staccare e tornare a casa, pregustava già il  momento di mettersi in poltrona con un buon bicchiere di vino rosso: era un’abitudine che non voleva perdere, lo riconciliava con la vita.

Stava proprio gustando il Brunello da Montalcino, quando la musichetta del telefonino si fece sentire. «Ho dimenticato di spegnerlo», brontolò. La voce agitata di Loredana uscì dal cellulare:

 «So che non dovrei disturbarla, mi perdoni commissario, ma ho una notizia importante da darle».

«Sono tutt’orecchi», rispose pazientemente Parisi.

(continua)