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venerdì 21 febbraio 2014

FINALE " UNO SPARO NELLA NOTTE"


«Dai miei informatori, ho saputo che Viviani ha acquistato una pistola da un tale, proprio il giorno prima del delitto», disse tutto d’un fiato.

«Allora è stato lui», sussurrò fra sé il commissario, poi riprese: «ottima notizia…ora ci penso io».

Posò il bicchiere di vino sul tavolino del salotto e telefonò al giudice delle inchieste preliminari per avere l’autorizzazione ad arrestare l’idraulico.

Il giorno dopo Viviani era in cella in attesa di essere interrogato ufficialmente dal GIP.

Alex Parisi aveva tirato un respiro di sollievo: c’era un colpevole che non aveva alibi per la notte dell’omicidio, c’era un movente importante ed era spuntata anche l’arma del delitto. Si poteva dire: “Bingo!”

 Ma la risposta dell’indagato agli innumerevoli e sfibranti interrogatori era sempre la stessa:

 “Non sono stato io”.

Comunque doveva sempre rispondere alla fatidica domanda «perché hai comprato al pistola?», e la risposta che doveva giustificare l’acquisto dell’arma era sempre quella:

« Volevo ucciderlo, ma non ne ho avuto il coraggio, ringrazio quel tale che l’ha fatto per me».

 Anche se Parisi era abituato a ricevere risposte simili da presunti colpevoli , questa ostinazione a negare avrebbe potuto essere indice di una verità ancora nascosta che doveva in tutti i casi essere scoperta.

 Quell’uomo era il principale sospettato ma il commissario  era troppo scrupoloso, prima di commettere un errore voleva essere sicuro di quello che stava facendo, perciò non smise di indagare, anzi, ordinò alla sua assistente di continuare le indagini.

Quella mattina Parisi si era appena seduto alla scrivania quando entrò la Caputo, lui la fulminò con lo sguardo.

 «Dottore, ho la registrazione dei funerali del chirurgo, vuole vederla?»

«O.K. vediamola insieme, potrebbe essere interessante», e si accinse ad assistere con l’intenzione di osservare scrupolosamente i partecipanti: non si sa mai.

Le immagini della mesta cerimonia si avvicendavano sul video, la moglie in lacrime, parenti, colleghi, e molti dipendenti della clinica seguivano il feretro, chiudeva il corteo una giovane donna incinta, con il viso seminascosto da grandi occhiali neri e sul capo un velo portato come le donne arabe. Il poliziotto aguzzò lo sguardo: «Stop… questa ragazza è strana. E’ sola e in fondo alla fila, pare volersi nascondere», disse soprapensiero. Ingrandì la foto, la donna indossava un abito lungo fino alla caviglia: «Sembra una musulmana», continuò scuotendo la testa.

Seguì il filmino con interesse e la rivide al cimitero, seminascosta dietro un albero, immobile fino alla fine del rito. Appena la bara venne interrata, notò che era uscita dal cimitero quasi di corsa. Il commissario aveva l’occhio attento a tutte le sfumature:

«Voglio il nome di quella donna», ordinò alla Caputo che si precipitò fuori per assecondare il suo capo.

Il giorno seguente Loredana arrivò puntualmente con le generalità richieste:

 «Si chiama Amina Mohamed, marocchina, infermiera alla clinica Salus, ora in congedo per maternità», sciorinò l’agente sull’attenti. Parisi chiuse gli occhi per pensare:

«Portamela qui», disse poi, «devo vederla».

Amina si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania di Parisi che, fin da quando era entrata aveva notato la fierezza del suo portamento, anche con il pancione, era una bella donna, aveva la pelle ambrata, il viso dall’espressione intensa come hanno spesso le donne arabe.

«Perché mi ha chiamata?», chiese, si tolse gli occhiali scuri e mostrò gli occhi neri, vellutati.

«Vorrei fare quattro chiacchiere…conoscevi il dottor Guidi?», disse il commissario entrando subito in argomento. La donna non si scompose: «Sì, ero la sua infermiera»,

Parisi, dopo molte domande,  riuscì a sapere che la ragazza non era sposata e che aspettava un figlio da un connazionale. Però c’era qualcosa nel suo sguardo che non gli piaceva, qualche volta era sfuggente come se non dicesse la verità. La lasciò andare ma, da quel colloquio una pulce gli era entrata nell’orecchio e così, ingrandì il suo raggio d’azione. Volle conoscere i tabulati del cellulare di Amina, li osservò attentamente e si disse: “il colpevole non è in prigione, è ancora libero”. Il numero di Guidi compariva spesso, anche il giorno dell’omicidio, mezz’ora prima che venisse ucciso c’era una chiamata verso di lui all’una e trenta di notte. «Caputo, vai a riprendere l’infermiera», ordinò quasi con amarezza, sentiva che c’era qualcosa di drammatico dietro l’apparente imperturbabilità di quella donna: nei suoi occhi neri c’era un’ombra misteriosa.

E anche questa volta Parisi non si sbagliava : la confessione di Amina non  tardò ad arrivare.

«L’ho ucciso perché se lo meritava!...», gridò.

 Lei aveva sparato al dottor Guidi, padre del bimbo che portava in grembo; l’aveva scongiurato di riconoscere il figlio ma era stata respinta, allora, disperata aveva deciso di farsi giustizia da sola.

 Quella notte telefonò al medico minacciandolo di andare a casa sua e vendicarsi sulla sua famiglia armata di pistola. Il dottore, in preda al terrore era uscito precipitosamente dalla clinica per fermarla, ma non sapeva di andare incontro alla morte: appena lo vide Amina sparò.

«Al mio paese i vigliacchi si uccidono», disse alla fine della confessione guardando dritto negli occhi il commissario.

FINE


 

 

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