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martedì 22 ottobre 2013

C'E' UN CADAVERE SUL VIALE DEL CONVENTO


 Erano le prime luci dell’alba, il ragazzo correva sul viale del convento dei frati, i lampioni ancora accesi illuminavano fiocamente la strada.
 Pablito, come ogni mattina, andava all’Abbazia per aiutare i monaci a fare il pane; era abituato ad alzarsi presto,  ma quel giorno la sveglia l’aveva tradito,  sapeva che frate Gerardo l’avrebbe sgridato perciò ce la metteva tutta per recuperare il ritardo. Passando sotto il penultimo lampione vide qualcosa di scuro, man mano che si avvicinava la sagoma prendeva forma: era un uomo sdraiato per terra. «Il solito ubriacone», pensò. Arrivò all’altezza del corpo e si chinò a osservarlo, si ritrasse inorridito: non era ubriaco,  era morto!  il sangue raggrumato sul selciato aveva formato un’orribile chiazza scura. Era un uomo di circa cinquant’anni, robusto, i capelli radi e grigi, sul viso aveva la maschera della paura: gli occhi spalancati e vitrei sembrava fissassero un punto sul cielo che si stava schiarendo.
Pablito rimase a fissare il corpo senza vita come inebetito, in quel momento udì il rumore di un’auto, cominciò a correre come una lepre inseguita, giunse al convento ansante e stravolto:
«A quest’ora ti fai vivo? Ho già infornato il pane, se domani arrivi ancora in ritardo lo dico a tua madre, ci penserà lei a punirti», brontolò frate Gerardo senza nemmeno voltarsi. Il ragazzo si era seduto su una panca e non riusciva a respirare, il frate si girò e rimase colpito dall’aspetto  del ragazzo:
«Cosa ti succede? hai visto il demonio?».
Pablito non aveva più forze, cercò di riprendersi, poi la voce strozzata gli uscì dalla gola:
«Ho visto un morto per terra, sul viale…», riuscì infine a parlare, tremando.
Il religioso lo scosse per le spalle:
«Cosa stai dicendo? Dov’era? Chi era?», l’incalzare delle domande mandò ancora di più in confusione il giovane cileno.
«E’  là….sotto il lampione, ha  la testa spaccata….è  pieno di sangue».
 Preoccupato frate Gerardo si avvicinò:
«Andiamo dal priore, dobbiamo dirglielo, poi lui prenderà una decisione», sentenziò.
In tanti anni l’abate Francesco non aveva mai vissuto una simile esperienza:
 «Cosa possiamo fare noi, poveri frati, chiamiamo subito la polizia !», esclamò agitato.
Dopo qualche minuto l’agente del centralino del commissariato accolse l’accorato appello del priore  :
 «Venite subito, c’è un cadavere nel viale del convento».
Parisi si era da poco seduto alla scrivania e stava leggendo il quotidiano locale, Loredana  Caputo entrò senza bussare:
«Commissario, dobbiamo andare, ha chiamato il convento dei frati, penso che ci sia un grosso problema da risolvere», e brevemente comunicò quel poco che sapeva.
Parisi ripiegò il giornale e alzò lo sguardo sulla poliziotta:
«Vai tu, Caputo con un paio di agenti della Mobile, sto aspettando una telefonata», mentì. Quella mattina si era alzato di malumore, aveva avuto una notte agitata : il fritto di pesce mangiato in trattoria la sera prima gli era rimasto sullo stomaco.
Loredana rassegnata eseguì l’ordine.
La camionetta arrivò sgommando sul posto, gli uomini si precipitarono fuori:
«Qui non c’è niente», disse uno di loro.
«Perlustriamo la zona, magari abbiamo capito male», comandò l’agente speciale Caputo guardandosi intorno.
 Ma il risultato della ricerca fu che del cadavere non c’era nessuna traccia.
«Andiamo al convento, la denuncia viene da là», decise Loredana.
Il monastero ancora avvolto nella nebbia era severo e grigio, gli agenti intimiditi  esitarono prima di tirare il cordone della campanella. Un fraticello aprì e si ritrasse subito:
«Oh, mio Dio! La Polizia!!!», esclamò spalancando gli occhi.
La Caputo sorrise e, cercando le parole per non agitare ulteriormente il religioso:
«Possiamo parlare con il priore?».
Il giovane frate li portò dall’abate Francesco che, quando si vide davanti gli agenti della Mobile si spaventò:
«Io non c’entro proprio niente», balbettò, «Pablito mi ha raccontato questa storia e mi sono sentito in dovere di chiamarvi».
«Ha fatto bene, padre», disse rispettosamente la Caputo, poi rivolto al ragazzo che se ne stava seduto in un angolo ancora sotto choc: « però vorrei sapere come mai ti sei inventato tutto, probabilmente vedi troppi film polizieschi», concluse.
Pablito si scosse: «Non dico bugie, è tutto vero!», gridò.
«Allora, sai cosa facciamo? Vieni con me in commissariato e magari ti viene in mente qualcosa di più….se dici la verità», propose Loredana.
«Trattatelo bene», si raccomandò il frate.
«Certamente, stia tranquillo, anche se avesse detto il falso lo rimanderemo a casa. I ragazzi sono imprevedibili!», rispose lei.
Parisi era uscito in corridoio a sgranchirsi le gambe,  seduto sulla panca, in attesa di essere convocato c’era un ragazzino con la pelle leggermente scura, lui gli lanciò un’occhiata e chiamò immediatamente la sua assistente:
«Cosa è successo all’Abbazia? ...e, cosa ci fa un bambino in commissariato?», chiese brusco.
L’agente speciale spiegò brevemente l’accaduto, il commissario l’ascoltava aggrottando le sopracciglia:
 «Fallo entrare, voglio parlargli, non bisogna mai sottovalutare i giovani, magari dice la verità».
Pablito entrò con il cuore che gli batteva a mille, si sentiva morire, aveva paura di essere messo in prigione ma, dopo che Parisi gli diede del bugiardo si ribellò:
 «Quel morto c’era, l’ho visto e l’ho quasi toccato!».
Il commissario non sapeva se credergli, dopo qualche altra domanda decise di lasciarlo andare a casa, lo vedeva troppo spaventato:
«Dimmi soltanto com’era quell’uomo per terra. Giovane o vecchio?  Poi puoi andare… se veramente c’era,  prima o poi salterà fuori», concluse bonario.
Il ragazzino descrisse il cadavere come se lo ricordava: corpulento, di mezza età, capelli radi.
 Alla fine il commissario fece un cenno e lui se andò via come un razzo.
«Strana storia», borbottò fra sé Parisi, ma gli era rimasta impressa la fermezza con la quale Pablito insisteva per farsi credere.
Il commissario Parisi  dirigeva quel posto di polizia da tanti anni, in una città di provincia era raro che succedessero fatti del genere, sapere che c’era un cadavere scomparso nel nulla gli sembrava un’assurdità.
 Ma nel pomeriggio dovette ricredersi: una signora elegante, sulla cinquantina chiese di entrare, si sedette sulla punta della sedia torcendosi le mani:
«Sono Laura Degiorgi e devo denunciare la scomparsa di mio marito, il professor Mauro Ferrari, insegnante di italiano al Liceo scientifico. Questa notte non è rientrato a casa, non è sua abitudine rimanere fuori, è uscito per incontrare un amico e non è più tornato», disse con la voce rotta dall’emozione.
Parisi l’osservò per qualche secondo senza parlare:
«Ha chiesto all’amico?», disse infine.
«Certamente….è la prima cosa che ho fatto, ma Giorgio mi ha detto di averlo lasciato verso le undici, poi di non averlo più sentito, nemmeno al telefono».
«Giorgio?», chiese il commissario.
«Sì, l’avvocato Mariani, nostro consulente finanziario», rispose lei arrossendo leggermente.
Quell’atteggiamento mise immediatamente in allarme il commissario:
«Per ora faccia la denuncia, signora, le auguro che suo marito ritrovi la strada di casa», disse congedando l’ospite, ma prima che la donna uscisse le chiese:
«Ha una foto di suo marito?».
Laura frugò nella borsa:
«Sì, l’avevo portata appunto per lasciarla a voi», disse porgendo il ritratto del marito.
Parisi diede un’occhiata e ricordò le parole di Pablito: “un po’ grasso, capelli radi e un po’ vecchio”, descrizione che coincideva con l’immagine che stava osservando.
Intanto nella mente del commissario si incrociavano tanti pensieri, l’uomo sparito poteva essere morto e questo poteva avere a che fare con.... il cadavere scomparso, ma cosa c’era dietro tutta quella faccenda? E se il professore si fosse semplicemente allontanato da casa per ragioni sue e se Pablito avesse detto una balla?
Allora il caso si sarebbe risolto da solo, ma c’era qualcosa che non quadrava, un sospetto che gli era balenato mentre la moglie del professore stava facendo la sua dichiarazione.

 (continua)
 

 

 

 

mercoledì 2 ottobre 2013

FINE " QUEL VORTICE MALEDETTO"


FINE DI  “QUEL  VORTICE MALEDETTO”

 I giorni che seguirono furono terribili per Diana, riconobbe il corpo del marito solo da un frammento di orologio al polso del cadavere carbonizzato. Cercò di nascondere la verità a Marta che era molto legata al papà, quando chiedeva di lui era costretta a mentire: “E’ in viaggio, vedrai che presto tornerà”, rispondeva. Ma per quanto avrebbe potuto reggere quella bugia? Con molta fatica Diana ricominciò a vivere, portava la bambina a scuola e il resto della giornata l’impiegava a cercare  un lavoro che le permettesse di andare avanti. Per sua fortuna lo trovò  in un ufficio legale, con un ottimo stipendio e questo la risollevò da una parte delle sue preoccupazioni. Non erano passati nemmeno tre mesi dalla scomparsa di suo marito quando ricevette una strana telefonata:
“Cara signora Savini, sono l’avvocato Ortega, ho bisogno di parlarle…può venire nel mio ufficio alle diciotto, domani sera?”, chiese una profonda voce maschile.
“Posso sapere perché?”, ribatté sorpresa la donna.
“ Non posso anticiparle nulla, ma le consiglio di venire… è nel suo interesse”. Dopo aver dato l’indirizzo l’uomo interruppe la conversazione.
 Diana scosse la testa dubbiosa: “chissà cosa vuole?, speriamo che non siano altri guai”, pensò preoccupata, “però devo vedere di cosa si tratta…”.
Il giorno dopo si recò all’appuntamento in una vecchia casa di un quartiere popolare. Salì i gradini osservando i nomi  sulle porte, al quinto piano su una targhetta di ottone, lesse “Avvocato Manuel Ortega”
Suonò e le aprì un uomo basso e grassoccio che indossava una giacca spiegazzata sopra una camicia senza cravatta,: “ Diana Savini?”, chiese in tono mellifluo, “prego, si accomodi”. Aprì l’uscio di un locale arredato sommariamente. Diana sedette davanti ad una scrivania zeppa di fogli e di libri..  L’uomo si accomodò dall’altra parte.
 “Cosa deve dirmi?”; chiese ansiosa  guardandosi intorno.
 L’avvocato strinse gli occhi e la fissò :
 “ Sa che suo marito aveva un debito con il mio studio?”, chiese sporgendosi per osservare l’effetto delle sue parole..
 Diana era impallidita: “Quanto?”.
. La cifra che quell’uomo le disse la sconvolse: “Non è possibile!…comunque, lui non c’è più”, ribatté decisa.
“Ci sei tu…e la bambina”, insinuò ancora lui passando al tu senza complimenti.
“No…la bambina non dovete toccarla….cercherò di rendervi quei soldi”; la voce di Diana era diventata un soffio.
“Ti do tempo una settimana, se non paghi …questa bella bimba ce la prendiamo noi”, disse togliendo da un cassetto una foto di Marta.
Diana si sentì morire, si alzò :
 “Aprimi la porta”, sibilò , “voglio uscire di qui”.
“Ci faremo vivi noi…e non andare alla polizia, sarebbe peggio, credimi”, affermò Ortega accompagnandola all’uscio.
Diana trascorse quella settimana cercando affannosamente del denaro, si rivolse ad amici e parenti, vendette il diamante di fidanzamento, ma riuscì a racimolare solo un terzo della somma che le era stata chiesta.
Si incontrò con Ortega in un locale pubblico . “Ho questi”, disse mettendogli in mano una busta, e non chiedermi altro, non ce la faccio….” L’uomo contò le banconote:
“ E’ un po’ poco, ma mi rendo conto che non è stato facile….ti do ancora tre giorni per saldare”, bofonchiò mentre un sorriso ironico gli stirava la bocca.
Ormai Diana non sapeva più a quale santo votarsi, arrivò la sera del terzo giorno che non aveva combinato nulla. Alla telefonata del suo persecutore dovette rispondere che non poteva dargli nemmeno un euro. La mattina dopo  accompagnò Marta a scuola e andò in ufficio, pregando che non succedesse nulla a sua figlia. Dopo il lavoro tornò a prendere la bambina con il cuore che le batteva forte; con sollievo la vide uscire serena e allegra come sempre. Si incamminarono per mano lungo il viale che percorrevano ogni giorno. Non si accorsero che una vettura nera le seguiva; erano pochi metri da casa e la strada era deserta. Diana si voltò e vide la berlina che era dietro di loro.
“Corri, Marta” gridò.
Ma non fecero in tempo ad allontanarsi che la macchina  si accostò al marciapiede: due uomini scesero e strapparono Marta dalle mani di Diana che urlò con quanto fiato aveva in gola..
 In quel preciso momento una frenata li fece sobbalzare, il commissario Alex Parisi, l’immancabile Caputo e due agenti scesero da un’auto della polizia e si gettarono sui rapitori ammanettandoli in un baleno. Tutto si era svolto così velocemente che Diana quasi non se ne rese conto.. Abbracciò la figlia ancora sotto choc  e si avvicinò a Parisi:
“Grazie…come avete saputo?”; balbettò in preda a un’intensa emozione.
Il commissario la guardò sorridendo:
 “Non ringrazi me, ringrazi lui”, disse accennando all’uomo che stava scendendo dalla vettura.
Gli occhi di Diana  diventarono immensi:  
“Rocco!”, esclamò al colmo dello stupore. Lui la strinse a sé con forza:
 “Ti amo tanto, non ti ho mai abbandonato…perdonami ancora una volta…”, le sussurrò fra i capelli., poi prese in braccio Marta che era ancora stava tremando:  “Nessuno ti farà più del male”, disse emozionato.
“Ma…il cadavere, la macchina bruciata…”, balbettò Diana.
 Parisi  intervenne: “Come vede, non era lui…era il corpo di un poveretto investito sulla strada e morto mentre suo marito stava accompagnandolo all’ospedale”, batté una mano sulla spalla di Rocco:
 “Vede questo tipo? Voleva suicidarsi…con una moglie così e una splendida bambina. Per fortuna ci ha ripensato e ha inscenato la commedia mettendo al volante l’uomo già cadavere e infilandogli al polso il suo orologio…poi ha incendiato il tutto e l’ha buttato dalla scarpata…avendo cura di farci ritrovare la targa…ingegnoso no?… Dopo, in preda ai rimorsi, è venuto a raccontarci tutto e da quel momento abbiamo messo sotto controllo la sua casa e il telefono per prendere in flagrante questa banda di delinquenti… Ortega è già al fresco!”.
“Grazie, commissario”, disse Rocco porgendo la mano all’ispettore che la strinse con vigore.. “è tutto finito, ora andiamo a casa…se possiamo ricominciare”, continuò fissando negli occhi Diana.
Lei gli sorrise e l’abbracciò in silenzio.  Marta lo tirò per la giacca:
 “Sei tornato dal viaggio papà? Dopo possiamo fare un gioco?”.
“Gioco?…”, rispose lui sorridendo, “è una parola che non conosco…”.
 Si allontanarono abbracciati seguiti dallo sguardo compiaciuto del commissario Parisi che rivolgendosi a Loredana Caputo disse brusco:
 “Cosa sono quegli occhi lucidi?...ormai dovresti esserci abituata! Forza, torniamo in commissariato, c’è un sacco di lavoro arretrato che ci aspetta”.

La Pantera della Polizia guidata dall’agente speciale sfrecciò veloce lungo le vie della città.

                                                                                                                                   FINE