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martedì 15 dicembre 2015

ARRIVA BABBO NATALE

Ron…Ron…con il pancione all’aria  Babbo Natale sta russando, è stanchissimo, da giorni sta lavorando da mattina a sera per caricare sulla sua scintillante slitta tanti giochi da portare ai bambini buoni.  Si è buttato sul letto ed è piombato  in un sonno profondo

I vetri della stanza tremano a ogni suo rumoroso respiro.

  E’ l’alba, nella casetta affondata nella neve, entra trafelato l’elfo Tolky:

«Svegliati, siamo in ritardo, non c’è tempo per dormire», esclama scuotendo il grande vecchio.

«Che ore sono? Già le cinque?», risponde lui stirandosi nel lettone.

«Abbiamo tante cose da fare: c’è ancora qualche regalo da impacchettare, e alcune letterine da leggere», dice l’elfo mentre l’aiuta a infilarsi le bragone rosse.

Babbo Natale si alza e guarda fuori: la neve sta scendendo fitta, tutto è bianco, immacolato, gli abeti hanno le cime incappucciate.

«Brr…che freddo», esclama. Esce e tuffa le mani nella neve fresca, ne prende un po’ e si lava il viso, la lunga barba si irrigidisce per il gelo.                                                                                                                                                          

 «Andiamo prima nella stalla a dare da mangiare alle renne», dice avviandosi per il sentiero, ad ogni passo gli stivali affondano nella coltre bianca.

Sdraiate sulla paglia le nove renne (che nella notte della Vigilia attraversano il cielo trainando la slitta dei doni) aspettano come ogni giorno la visita del loro padrone.

«Come state amiche mie?», chiede Babbo Natale mentre riempie le mangiatoie. Le renne lo guardano con occhi sofferenti e nessuna si muove.

«Non avete fame? Forza, alzatevi, fra poco ci aspetta un lungo viaggio», esclama lui mentre si avvicina a Freccia che sembra la

più pigra.

Le tocca il naso: «E’ un po’ secco, non avrete la febbre per caso?».

Preoccupato va verso le altre e si accorge che tutte hanno il naso freddo e secco.

«Tolky, vai a chiamare l’elfo Doc, le renne non stanno bene», grida in preda al panico. «Poverine!», si avvicina a ogni renna e, una per volta le accarezza:

 «Cometa, Ballerina, Fulmine, Donnola, Freccia, Saltarello, Donato, Cupido, vedo che proprio non vi reggete in piedi, e anche tu, Rudolph, il tuo naso rosso è diventato rosa pallido. Coraggio, sono certo che vi rimetterete presto, sarà soltanto un’indigestione e domani potremo partire, non si può fare aspettare i bambini».                                                                        

Babbo Natale cerca di tranquillizzare le povere bestiole spaventate ma, quando arriva l’elfo Doc il suo responso non lascia sperare nulla di buono: «Hanno preso un virus, guariranno fra una settimana,  hanno bisogno di riposare e di stare al caldo», afferma.

Dopo queste parole Babbo Natale si toglie il berrettone rosso e si gratta la testa, pensieri neri frullano nel suo cervello. Se ne torna in casa e si accascia davanti al camino. Una lacrima scende lungo la barba bianca. «Sono disperato», sussurra a Tolky che lo guarda preoccupato.

«Non fare così, vedrai che troveremo una soluzione. Mi ritiro nel pensatoio, mi verrà in mente qualcosa». Se ne va seguito dallo sguardo triste del buon vecchio.

Un giorno è trascorso e viene la sera, è la notte che precede il Natale e i bimbi nei loro lettini non riescono a prendere sonno: sperano di sorprendere Babbo Natale mentre mette i regali sotto l’albero.

Ma non sanno che, in un paese lontano, fra i ghiacci del Polo si sta consumando una tragedia: il grande vecchio con la lunga barba bianca sta singhiozzando davanti al camino, nessuno l’aiuta: le renne stanno male, non sa come farà a portare i regali.  sente solo e disperato.                                                                                             

La luna brilla nel cielo scuro, è una notte serena, però non è sereno il cuore di Babbo Natale. Il tempo passa inesorabile, la mezzanotte si avvicina…

Improvvisamente la porta si apre, un vento gelido entra in casa, e Tolky compare sulla soglia:

«Presto, sbrigati, vai a prendere la slitta….non c’è tempo da perdere!», grida affannato l’elfo,«un mio amico mi ha trovato la soluzione!»

Babbo Natale si alza: «Cosa stai dicendo? Senza le mie renne, chi mi porta in cielo?».

«Vieni a vedere, questo ti porterà dai tuoi bambini», dice Tolky.

In quell’istante si sente un rumore, e all’orizzonte compare un oggetto scintillante:

«Cos’è? », esclama Babbo Natale strizzando gli occhi.

Poco dopo un elicottero d’argento si posa sulla neve, scende un elfo con il casco:

«Svelti, salite!», grida affannato.

Tolky, aggancia la slitta traboccante di pacchi, aiuta Babbo Natale a salire sullo stravagante mezzo di trasporto…e via! Finalmente si va; davanti alla luna passa  uno strano convoglio: un elicottero argenteo che trascina una slitta, un Babbo Natale che sorride beato nella notte magica perché sa che i regali arriveranno puntuali ai piccoli che dormono e non sapranno mai che hanno rischiato di non averli.                                                                                                                                                        

 

 

 

 

  

 

 

 

lunedì 14 dicembre 2015

CHI E' LA SIGNORA AMALIA?


 

 

 

 



 

Francesco s’accostò al bancone del bar e ordinò un caffè. Mentre aspettava di essere servito vagò con lo sguardo per il locale: un albero di Natale stracarico di addobbi scintillanti donava all'ambiente un po' squallido una nota di colore.  L’anziana signora, seduta al tavolino poco distante, lo stava fissando fin da quando era entrato nel locale, uno sguardo insistente, quasi provocatorio, forse per attirare la sua attenzione. Ma Francesco non l’aveva neppure notata, era infreddolito e stanco, stava guidando da ore e quel caffè caldo se l’era sognato durante il tragitto. Ora la tazzina fumante era davanti a lui e si voleva gustare il piacere di mandar giù un sorso in santa pace. La bevanda gli entrò nello stomaco e gli fece bene, ne aveva un bisogno fisico e impellente: si sentiva pronto a riprendere il viaggio.  Si era fermato mentre stava percorrendo la via Aurelia in direzione di Savona, non aveva molti chilometri da fare, era quasi arrivato, aveva già oltrepassato la città e Loano non era molto lontana. 
Stava tornando a casa sconfitto, era andato via pieno di speranze, ma il destino gli si era rivoltato contro, non era riuscito a ottenere il prestito dalla banca per continuare a tenere in piedi la sua azienda in crisi. Era un piccolo imprenditore che si stava barcamenando, in questi momenti difficili, per tenere a galla la fabbrica di borse dove lavoravano dieci operai. Aveva assolutamente necessità di un finanziamento per pagare gli stipendi e tenere a bada i creditori, altrimenti avrebbe dovuto chiudere e lasciare a spasso i dipendenti. Proprio in quei giorni che precedevano il Natale aveva avuto un ultimatum: pagare entro una data stabilita altrimenti avrebbe dovuto dichiarare bancarotta.  La testa era piena di pensieri funesti, anche la strada tutta curve, che ben conosceva, l’aveva stressato: era buio e pioveva, non vedeva l’ora di togliere le scarpe e di buttarsi sul letto. Stava posando la tazzina sul banco quando il fracasso del piattino che si rompeva sul pavimento lo fece voltare. Istintivamente si chinò per raccogliere i cocci e quasi si scontrò con la donna piegata sui frammenti sparsi dovunque.

«La ringrazio, è molto gentile, l’ho fatto senza accorgermene, lasci, adesso viene il barista, non si disturbi», disse lei, gli occhi chiari, azzurri, leggermente appannati dall’età, si alzarono sul viso di Francesco che le sorrise.

«Sono cose che capitano», farfugliò banalmente lui, senza sapere cosa aggiungere.

La donna si alzò dal pavimento con fatica, quando arrivò il ragazzo del bar con scopa e paletta, si diresse verso Francesco e gli appoggiò la mano su un braccio:

«Mi scusi, lei va verso Loano?», domandò.

«Sì, abito proprio lì», rispose lui voltandosi sorpreso.

«Senta giovanotto, mi darebbe un passaggio?  dovrei tornare a casa, ho freddo e sono stanca, non ce la faccio più», aveva la voce tremula, come di chi si sente male.

Francesco rimase un attimo interdetto, non si aspettava questa richiesta. Tardò a rispondere e la donna riprese: «Sono sfinita, arrivo da molto lontano, alla mia età non si sopportano più le fatiche. Farebbe veramente un’opera buona, e poi non abbia timore, non sono una vecchietta con la pistola in tasca…mi guardi, sono innocua, non farei male a una mosca!»

Lui alzò le spalle e sorrise alle battute della vecchia signora, quella donnetta lo impietosiva: sola e infreddolita seduta a un tavolino di un bar di passaggio, chissà perché era lì? Ma non se lo chiese e decise di assecondarla.

«Va bene, se si fida della mia guida, cercherò di riportarla a casa».

La sua interlocutrice sorrise soddisfatta:

«Grazie, non dimenticherò, lei è una brava persona. Ah, mi scusi», continuò poi, « non mi sono presentata, mi chiamo Amalia», allungò la mano verso quella di Francesco che a sua volta disse il suo nome. Fatte le presentazioni, Francesco pagò il caffè e si accinse a uscire:

«Andiamo?», disse rivolgendosi alla donna che era già pronta a partire.

Lei afferrò la borsetta e lo seguì verso l’auto parcheggiata ai bordi della strada. Si misero in viaggio, la signora Amalia, dopo pochi chilometri si appisolò. Francesco l’osservò con la coda dell’occhio per non distrarsi dalla guida, la testa con la chioma bianca e leggera come un’aureola era abbandonata leggermente di lato, sul viso un piccolo sorriso le dava un’aria serena, anche lui, guardandola, sentì dentro di sé distendersi quel grumo che si portava dentro da ore.

«Chissà cosa ci faceva in quel bar, a quest’ora e con questo tempaccio», pensò Francesco, non gli aveva detto nulla di sé, nemmeno dove voleva essere lasciata. In effetti quel pensiero gli dava una certa preoccupazione, la signora era anziana e si sentiva responsabile. Si chiedeva se aveva fatto bene a prenderla con sé, ma era stata una decisione improvvisa e talmente spontanea che non gli aveva lasciato il tempo di pensare. «Quando sono arrivato la sveglio, così mi dirà dove la devo lasciare», pensò.

La cortina della pioggia battente toglieva visibilità alla strada pericolosa anche per il susseguirsi delle curve a gomito, Francesco guidava con i nervi tesi per l’attenzione, a un tratto la donna che aveva accanto si svegliò:

«Attento, c’è un camion dietro la curva!», esclamò.

Francesco fece appena tempo a sterzare, il grosso Tir aveva invaso una parte della corsia opposta, se non fosse stato avvisato con l’esclamazione della signora Amalia, l’incidente sarebbe stato inevitabile. Appena passato il grosso veicolo, il giovane si mise una mano sulla fronte imperlata di sudore e tirò un respiro di liberazione:

«Come ha fatto a sentire che stava arrivando quel bestione!», chiese ancora sotto choc.

«Non so», fu la laconica risposta, poi la donna girò la testa dall’altra parte e si riaddormentò.

Francesco era rimasto colpito dall’episodio, più ci ripensava e più si convinceva che la vecchietta, che si era riappisolata, gli aveva salvato la vita. Continuò il viaggio con questo pensiero. «Fra un po’ la dovrò svegliare», si disse, «manca poco».

In vista del cartello stradale di Loano, Francesco la toccò leggermente sul braccio:

«Signora, siamo arrivati, dove l’accompagno?».

La donna si scosse, «Ah, grazie giovanotto, mi lasci per favore davanti alla chiesa, sono di casa in parrocchia», affermò sorridendo.

Arrivarono sul sagrato, lei scese sveltamente, senza aspettare che Francesco le aprisse la portiera:

«Non si disturbi, ce la faccio ancora. E’ stato molto gentile, ha fatto un’opera buona. Saluti sua moglie e i suoi bambini», esclamò andandosene. Inspiegabilmente Francesco non la vide più: era scomparsa. Ripensò alle sue parole: « Come fa a sapere che ho moglie e figli? Mah…è una strana vecchietta, spero di aver fatto una cosa giusta accompagnandola, non vorrei avere dei fastidi», mormorò, «però adesso finalmente posso tornare a casa!»

Francesco arrivò davanti al suo villino stremato dal viaggio e dalle strane vicende che gli erano capitate, mise la vettura nel box, ritirò la borsa e il giaccone, mentre si accingeva a chiudere le portiere notò una grande busta bianca sotto il sedile davanti. La prese e vide che era indirizzata a dottor Mario Bernardi, di Savona.

«E questa cos’è?», mormorò rigirandola fra le mani, «non è mia, sarà della signora, ha detto che è di casa in parrocchia, domani la consegno a don Giacomo, ci penserà lui a dargliela».

Rientrò a casa, nell’abbraccio affettuoso della sua famiglia dimenticò per quella sera i suoi problemi. Ma l’indomani il parroco cadde dalle nuvole:

 «Non conosco nessuna signora Amalia, mi dispiace», disse all’attonito Francesco che, oltre alle sue grane aveva per le mani quella busta non sua.

«Se posso dare un consiglio, direi di imbucarla, c’è già l’indirizzo, così è sicuro che arriva», continuò il sacerdote.

«Buona idea!», rispose sollevato Francesco e l’inserì nella prima buca delle lettere che incontrò.

Però gli rimase da sciogliere il mistero della donna incontrata in un bar dell’Aurelia. Chi era? Perché gli aveva detto che conosceva il parroco del paese se don Giacomo non l’aveva mai vista?  Talvolta  nella vita ci sono cose  di cui non puoi trovare spiegazioni e la figura della signora Amalia era una di quelle: comparsa improvvisamente e sparita nel nulla. Di lei era rimasta soltanto una busta bianca.

I giorni passavano e la situazione economica di Francesco si faceva sempre più difficile, i creditori che lo inseguivano, le banche con i conti perennemente in rosso, gli stipendi da pagare, torturavano le sue notti. Purtroppo aveva deciso di dichiarare bancarotta e di chiudere l’azienda, gli dispiaceva soprattutto per i suoi dipendenti fra i quali c’erano anche padri di famiglia cui doveva dire che avrebbero perso il lavoro e anche la liquidazione. Si vergognava perfino ad andare in fabbrica, aveva cercato con tutte le sue forze di evitare tutto questo, ma non ce l’aveva fatta.

 Quel mattino arrivò la posta che, da un po’ di tempo, Francesco metteva da parte per non  angustiarsi ulteriormente. Erano quasi sempre solleciti di pagamento, ormai non si aspettava altro. Quando si decise a sfogliare la corrispondenza la sua attenzione fu attratta dall’ultima lettera che giaceva sotto le altre. L’aprì aspettandosi la solita brutta notizia, ma fin dalle prime righe si accorse che era una richiesta anomala: il notaio Bernardi l’invitava nel suo studio il giovedì successivo alle ore diciotto per comunicazioni che lo riguardavano.

Rilesse il testo e l’indirizzo, controllò che fosse diretta a lui e ne dedusse che non c’era nessun dubbio: l’invito era proprio per il signor Francesco Ferri, ovvero lui in persona.

  «Sono certo che sarà ancora un’altra seccatura, ci sarà qualcuno che vuole dei soldi», disse quella sera alla moglie.

«Però sarà meglio che tu vada a vedere, non vorrai metterti nei pasticci, un notaio è pur sempre un pubblico ufficiale», rispose lei. Ormai erano pronti a tutto, vedevano il mondo rovesciarsi addosso.

Il giovedì pomeriggio Francesco salì le scale dell’antico palazzo dove abitava il notaio.

Era agitato, non sapeva proprio cosa l’aspettava, entrò. Una bella ragazza lo fece accomodare in un salottino in stile liberty, nell’attesa prese una rivista da sfogliare.

Sentì il rumore di una porta che si apriva e si voltò. Con sua enorme sorpresa vide la signora Amalia, proprio quella cui aveva dato il passaggio, attraversare la stanza.

Gli passò vicino e gli sorrise, lui era pietrificato e tentò di fermarla, lei però proseguì e uscì da un’altra porta. In quel momento la segretaria del notaio lo chiamò:

«Può accomodarsi», gli disse, ma lui era ancora intento a riaversi dalla sorpresa.

«Ma…quella signora», balbettò.

«Quale signora? Qui non c’è nessuno, la prego il notaio l’aspetta», rispose lei guardandolo come si guarda un esaltato. Francesco entrò nello studio con le gambe che gli tremavano.

«Chiedo scusa, perché questo invito?», chiese ancor prima che il notaio parlasse.

L’uomo seduto dietro la scrivania di mogano l’osservò per qualche secondo:

«Si calmi», disse poi, «l’ho convocata per una cosa molto importante che la riguarda da vicino».

Francesco era sempre più in tensione, aspettava con ansia che l’altro parlasse chiaro.

«Lei conosce Amalia Ferri?», chiese il pubblico ufficiale.

Francesco ebbe un sussulto:

«Amalia Ferri? …ho incontrato una sola volta una signora che mi ha detto di chiamarsi Amalia, ma non l’ho più rivista», rispose angosciato.

«Lei è Francesco Ferri? Mi vuole mostrare i documenti?»

Sempre più in ansia Francesco mise la carta d’identità sulla scrivania. Dopo aver dato un’occhiata il notaio prese un foglio:

«Giorni fa mi è stato recapitato per posta il testamento della signora Ferri, sua zia, morta un mese fa  a Buenos Aires. Non so come ha fatto quel documento ad arrivare fin qui, ma io sono un pubblico ufficiale e sono obbligato a comunicarle il contenuto».

Il cuore di Francesco era come impazzito, si mise una mano alla gola:

«Sì, la sorella di mio padre è emigrata sessant’anni fa in Argentina…», mormorò, aveva la testa confusa, una nebbia gli era calata davanti agli occhi, sentiva il notaio che parlava, parlava, leggeva un testamento che diceva che lui era l’unico erede di una fortuna, quella della zia Amalia, vedova e senza figli, consistente in una notevole somma di denaro, titoli, e vari immobili.

«Senta, dico a lei!», il notaio stava sollecitandolo.

 Francesco si riprese: «Sono sconcertato, mi deve scusare».

«La capisco, ma un’ultima cosa, le devo consegnare questa foto, poi firmi qui. Ci sentiremo in seguito per le varie formalità», concluse lui affrettando i tempi.

Il ritratto della zia Amalia era quello della vecchia signora cui aveva dato il passaggio.

Uscì da quello studio ancora incredulo, si voltò e per un attimo rivide accanto a sé la signora Amalia, ma ormai non si scomponeva più: «Grazie zia», sussurrò, «non ti dimenticherò mai».

Tornò a casa con le gambe molli ma il cuore sereno: era salvo! ... e soprattutto erano salvi i suoi operai e impiegati che non avevano perso il lavoro!
 " Buon Natale a tutti!", esclamò stringendo in un forte abbraccio la sua famiglia.
FINE