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venerdì 5 aprile 2013

UN FIORE NEL FANGO

 Romanzo


  
La notte era chiara e l’aria ancora tiepida anche se era autunno inoltrato, la ghiaia del vialetto scricchiolava sotto le ruote del fuoristrada.  Giulio procedeva con prudenza per non schiacciare i piccoli animali notturni che uscivano nel buio dalle loro tane; i muri bianchi della villetta in stile mediterraneo s’intravvedevano attraverso i rami delle palme. Dietro le finestre illuminate c’era Linda che l’aspettava, sorrise guardando la luce, si passò una mano sulla fronte come per cancellare la stanchezza: tornava da un lungo viaggio d'affari  riguardanti l’impresa di costruzioni di cui era proprietario. Scese dalla vettura per aprire il portellone del garage: due ombre si materializzarono accanto a lui e un tampone gli soffocò in gola l’urlo di paura.
Quando si svegliò un dolore lancinante gli martellava le tempie, il suo sguardo vagò smarrito intorno ai muri, sul soffitto un grosso ragno stava intessendo la sua tela, Giulio si fermò confuso a osservare i movimenti lenti dell’insetto, ancora sotto l’effetto della droga non riusciva a coordinare i pensieri. Lentamente stava risalendo dal buco nero dell’incoscienza: “Dove sono? Chi mi ha portato qui?”.
 L’ultimo ricordo che la sua mente gli rimandava erano le finestre illuminate della sua villa, poi il buio.  La capanna in cui era rinchiuso era illuminata solo dallo spiraglio di luce che filtrava da una piccola finestra sul tetto, dalle assi malamente inchiodate del pavimento filtrava la sabbia, in lontananza sentiva il rumore del mare. Si alzò a fatica dalla branda e sentì una fitta, si toccò la gamba e la  mano afferrò una grossa catena lunga qualche metro che gli imprigionava la caviglia, intanto nella testa continuava a picchiare il chiodo doloroso che si accentuava ad ogni movimento. Su un tavolino c’era un catino e accanto una brocca piena: “Acqua…ho bisogno di acqua”. Si trascinò a fatica e bevve avidamente, il liquido gli entrò nello stomaco calmando l’arsura che aveva dentro, ne versò un po’ nel catino e si sciacquò il viso.
Il chiavistello arrugginito della porta si mosse stridendo, un uomo con il cappuccio nero in testa entrò:
“Ecco il nostro ingegnere…ti sei svegliato finalmente! Ti piace l’albergo? Non abbiamo trovato di meglio, ti dovrai adattare…”, in mano aveva un sacchetto. “Ti ho portato qualcosa da mangiare…così non andrai a dire che hai patito la fame!”. Con una risata  ironica appoggiò l’involucro sul tavolo..
 “Come mai sono qui? Tu chi sei?”, chiese Giulio, avrebbe voluto ribellarsi, ma era senza volontà. Negli occhi lucidi che lo fissavano dalle fessure del cappuccio passò un piccolo lampo: “Io sono solo un servo”, rispose l’altro, “il capo si degnerà di farti visita fra poco… chiedilo a lui perché sei qui!”, gli voltò le spalle e se ne andò richiudendo l’uscio dal di fuori con un sinistro rumore di ferraglia. Rimasto solo Giulio aprì il pacchetto che l’uomo gli aveva portato: la pagnotta e il pezzo di formaggio gli fecero voltare la testa disgustato, la nausea gli saliva fin nella gola; si rimise a sedere: “mi hanno sequestrato”, pensò, “no… non è possibile!…e adesso cosa faccio?”. Nella sua mente ancora annebbiata si stava facendo luce la realtà, immediatamente pensò a Linda. Quella sera era tornato carico di buoni propositi, era un periodo in cui fra di loro sembrava che non funzionasse più niente, non c’era più l’intesa di un tempo, ma lui sperava ancora di poter salvare il matrimonio, in fin dei conti era solo questione di cercare una via d’uscita, le incomprensioni potevano essere superate… ma non aveva avuto il tempo per dirle che il suo amore per lei non era cambiato. Ora era lì, imprigionato con quella catena al piede in balìa di una banda di delinquenti, non aveva paura per lui, sapeva già quello che l’aspettava, pensava invece al tormento che sua moglie avrebbe dovuto superare: le lunghe ore vicino al telefono in attesa di una chiamata, il clamore che inevitabilmente si sarebbe scatenato quando la notizia del sequestro si fosse diffusa, la ricerca del denaro per pagare il riscatto …tutti questi pensieri si affollavano nel suo cervello e  lo mettevano in uno stato ansioso che non riusciva a calmare. Doveva aspettarselo, era quasi un sequestro annunciato: da un po’ di tempo oscure minacce lo perseguitavano, ma non aveva voluto cedere al ricatto, sapeva che dietro quei messaggi intimidatori c’era una banda del luogo capitanata da un boss che non gradiva la sua intrusione in Sicilia per costruire un villaggio turistico in una zona dimenticata.  
Ancora lo stridere del catenaccio gli annunciò una visita: questa volta un uomo ben vestito stava entrando nella capanna, il viso nascosto dal solito cappuccio.
“Buon giorno ingegner Tomasi”, disse con un accento marcato, “ non ha voluto seguire i miei consigli e sono stato costretto a prendere provvedimenti…come vede”.
Giulio arretrò di qualche passo, l’alta figura dell’uomo che aveva accanto gli fece venire un brivido lungo la schiena. Si riprese. “Cosa volete da me ?”, chiese con voce ferma.
“Solo un po’ di soldi, se si comporta bene e soprattutto se i suoi famigliari non mettono i bastoni fra le ruote sarà tutto finito in breve tempo…questo è il prezzo che deve pagare per essere venuto a sconvolgere la mia terra”, l’uomo si sedette sulla sedia sgangherata, incrociò ostentatamente le gambe e accese un sigaro.
Il fumo acre invase la stanza, Giulio strinse i pugni per la rabbia:
“Siete dei banditi”, disse con la voce che gli tremava.
“Attento alle parole, giovanotto”, rispose minaccioso l’uomo, “non permetto a nessuno di insultami…”. Si alzò con un agile movimento e si avviò alla porta, “adesso me ne vado, tornerò quando sarà necessario”. Uscì lasciando dietro di sé la puzza del sigaro.
Per l’ingegnere cominciarono giorni di lenta agonia, nessuno si faceva vivo, tranne il garzone che gli portava il cibo, le ore erano sempre uguali, il giorno e la notte si alternavano nell’angosciosa attesa che accadesse qualcosa.. Il tempo era cambiato, ogni tanto qualche violento temporale sconvolgeva il silenzio, spesso il freddo gli entrava fin nelle ossa., sentiva la febbre arrivare con brividi violenti. Era ridotto male e se ne accorse il suo carceriere: “Cosa ti succede?”, gli chiese una mattina, aveva visto gli occhi arrossati e il pallore del suo prigioniero che non promettevano niente di buono; venne a fargli visita anche il capo, li sentì parlottare fra loro poi andarsene senza rivolgergli la parola. Una mattina, bendato e con le mani legate dietro la schiena lo fecero salire su una jeep e lo trasportarono altrove. “Vieni,”, gli dissero, “non possiamo perdere un  milione di euro…qui è troppo umido, ti stai ammalando…”
Quando gli tolsero la benda  si trovava nella stanza di una casa in muratura, i muri erano scrostati e vecchi, sicuramente era a piano terra perché non aveva fatto nessun gradino per entrare: forse era una malandata masseria in disuso. Sentiva un’aria diversa, più frizzante, come un odore di bosco, anche il cinguettio degli uccelli che proveniva da fuori gli fece capire di essere stato trasportato lontano dal mare, forse nella campagna  vicina. Un robusto portone di legno con grossi catenacci lo chiudeva dentro; le finestre erano sbarrate e non poteva guardare fuori per confermare la sua ipotesi; l’arredamento non era dei migliori, ma questa volta c’era un vero e proprio letto, anche se i materassi erano appiattiti e non esistevano lenzuola. Cercò di interrogare il ragazzotto addetto al suo pasto, ma non ebbe risposta…
“Forse si sono spaventati perché mi sono ammalato…se rimango vivo possono chiedere un riscatto con più facilità”, pensò, “certo che qui è un lusso in confronto a quella catapecchia…” Infatti si sentì meglio, dopo qualche giorno la febbre cessò, ma la  tortura psicologica non era finita, la sua fibra forte aveva reagito, però la sua volontà stava vacillando; non sapeva cosa stava succedendo fuori: gli avevano fatto delle foto mentre teneva in mano un quotidiano, poi più niente.
Una sera al posto del solito rozzo individuo entrò un giovane alto e sottile, vestito di una tuta sportiva e con il capo coperto da un passamontagna blu, Giulio lo guardò stupito perché aveva modi e portamento diversi dai tipi selvaggi che, fino ad allora l’avevano avvicinato. Si muoveva con disinvoltura, in silenzio posò il cibo sul tavolino, andò al rubinetto a riempire una caraffa d'acqua fresca e gli versò da bere. Sempre più meravigliato gli mise una mano su un braccio e lo fermò:
“Chi sei?”, gli chiese, “come mai non è venuto l’altro?”
Senza rispondere il ragazzo si liberò dalla stretta, dalla fessura del passamontagna si vedevano gli occhi verdi, le ciglia nere e lunghe e, fra le sopracciglia un piccolo neo. Uscì senza voltarsi indietro .  
 Nei giorni seguenti era sempre il nuovo vivandiere a portargli da mangiare, Giulio cercava di attaccare discorso ma non c’era niente da fare: dalla bocca del giovane non usciva nessun suono; qualche volta si intuiva, dall’espressione  degli occhi che avrebbe voluto rispondergli, ma si tratteneva.
Il tempo passava, ma per lui era sempre uguale, non sapeva quanti giorni erano trascorsi dal suo sequestro, anche l’orologio gli era stato sottratto e si regolava solo con la luce del sole che filtrava dalle fessure delle finestre sbarrate, il giorno e la notte si susseguivano senza che accadesse niente: ogni volta che una nuova alba si annunciava c’era sempre la speranza che fosse l’ultima trascorsa in quella prigione. Ormai i suoi nervi stavano cedendo, nessun altro entrava in quella stanza all’infuori del silenzioso ragazzo che regolarmente due volte al giorno gli portava qualcosa per non farlo morire d’inedia; era arrivato anche a parlare con se stesso pur di sentire il suono di una voce umana. Credeva di essere sull’orlo della follia e una volta che il ragazzo arrivò lo aggredì alle spalle:
“Rispondimi, bastardo….quando finirà questa tortura… dimmelo!”, gli gridò disperato.
L’altro si voltò e arretrò di fronte a lui: “Lasciami stare…se grido non la passerai liscia!”, urlò.
“Sei una donna!”, esclamò Giulio, “avevo avuto il sospetto…ti muovi con troppa grazia per essere uno di loro, ma con questi vestiti senza forma e quel passamontagna non ne ero sicuro…”, concluse lasciandosi andare sul letto al colmo dello stupore.
“Sì, sono una donna…e allora? Adesso cosa farai? Ti consiglio di non essere violento, perché mio padre non te lo perdonerebbe  mai!”, rispose la ragazza allontanandosi¸ chiuse la porta e lasciò Giulio annichilito.
 Qualche ora dopo il rumore dell’uscio che si apriva lo fece sobbalzare, aspettava con curiosità l’arrivo della
ragazza, chissà se avrebbe continuato con il mutismo ora che si era rivelata? Sperava proprio di poter avere qualche notizia, con una donna gli sembrava più facile chiedere…
“Come ti chiami?”, domandò appena la vide.
L’altra, che stava posando il  pane sul tavolino, non si voltò.
“Ti prego”, scongiurò , “rispondimi…non posso continuare così, sto diventando pazzo!”
 L’accento disperato di quelle parole colpì la giovane che si girò verso di lui:
“Mi chiamo Rosalia”, rispose sommessamente, “ma, mi raccomando, non dire a nessuno che ti ho parlato”, 
 nella sua voce c’era un accento di paura.
Giulio si avvicinò: “Perché fai questo? “, le chiese mettendole una mano sulle spalle e fissando il suo sguardo negli occhi verdi che brillavano dalle fessure del passamontagna.
La ragazza si scostò con un moto brusco: “Non ho altra scelta…sono costretta. Adesso basta, devo andare”, disse  improvvisamente allontanandosi. L’uomo rimase a fissare la porta chiusa, la sua mente sconvolta aveva recepito un piccolo messaggio di speranza: era convinto di poter arrivare a sapere quando sarebbe finito il suo calvario attraverso le informazioni di quella ragazza. Ce l’avrebbe messa tutta per farla parlare, ormai aveva rotto il ghiaccio e solo il pensiero di poter sapere qualcosa di più gli toglieva l’ansia che aveva addosso da quando era rimasto recluso in quella stanza.
(continua)

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