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sabato 26 settembre 2015

L'ORCHIDEA NERA - Seconda puntata

SECONDA PUNTATA


"Veramente mi aveva parlato di lavori domestici, ma forse non sono ancora in grado…e ha ragione lui. A casa sua potrò curarmi e guarire”, borbottò lei fra sé e sé.
“Comunque non ti lascerò sola…verrò a controllare che tutto proceda per il meglio”.
Zaira si chiedeva se l’interessamento del capitano fosse soltanto per dovere oppure se, come stava capitando a lei, ci fosse qualcosa di più. Quel giovane in divisa l’aveva colpita fin dal primo momento, aveva sentito per lui un’attrazione mai provata con altri; forse per i suoi modi gentili, o perché aveva gli occhi chiari, sinceri e un sorriso particolare.   
“Grazie…perché fai tutto questo per me?”, domandò .
Vito non rispose, le prese le mani e rimase così per un attimo, che a lei sembrò lunghissimo:
“Ho paura di essermi innamorato di te”, sussurrò facendo scorrere lo sguardo sul suo viso.
Zaira abbassò gli occhi:
"…mi è successa la stessa cosa”, sussurrò., " sei quello che ho sempre cercato”.
In quel momento i due giovani vissero la magia dell’incontro di due anime che si erano ritrovate.
Vito si scosse dal turbamento che l’aveva preso, era così felice di sapere che il suo sentimento era ricambiato che abbracciò Zaira sotto lo sguardo stupito della donna che condivideva la camera della ragazza. Rimasero così uniti assaporando il piacere di sentire i loro corpi vicini. Quando si sciolsero avevano ambedue gli occhi lucidi:
“Ti rivedrò presto, ho bisogno di stare con te, di conoscerti, di parlarti”, mormorò lui
 Si batté una mano sulla fronte:
“Ah, dimenticavo, ti ho portato qualcosa da metterti addosso…quando sei arrivata eri fradicia e penso che quel vestitino azzurro ormai sia rovinato”, scherzò.
 Trasse da una borsa un paio di jeans, una maglietta e un pullover.
Zaira prese gli indumenti e se li appoggiò al corpo:
 “Penso proprio che mi vadano bene…grazie, avrei dovuto uscire con il camice bianco”, alzò lo sguardo su Vito, “ho avuto una bella fortuna ad incontrarti!”, esclamò, “ormai sei diventato il mio angelo custode”.
Si lasciarono poco dopo, ognuno di loro era felice, pensavano solo al momento in cui si sarebbero rivisti.
Il dottor Giannini abitava in una villetta a schiera  alla periferia della città, di stile mediterraneo, bianca con un piccolo giardino antistante. Zaira scese dall’auto, si fermò a guardare e pensò che poteva dirsi fortunata. La moglie del dottore l’aspettava sulla porta. Era una donna ossuta, con il viso segnato, era difficile darle un’età , le borse sotto gli occhi e le rughe sulla fronte la facevano sembrare vecchia.
“Sei tu Zaira?”, chiese squadrandola da capo a piedi, “Non sembri una negra, sei molto bella”, disse ancora., “ capisco perché mio marito ti ha portata a casa….”.

 Il tono della donna era sprezzante, la giovane somala si sentì umiliata, stava per rispondere quando il dottor Giannini sopraggiunse:
“Vieni, mettiti a tuo agio….Marisa, falle vedere dove si sistemerà”, ordinò rivolto alla moglie che aveva cambiato atteggiamento non appena l’aveva visto arrivare.

Entrarono, Zaira stupita dal lusso che la circondava era intimidita. Attraversarono il salone arredato con grandi divani e morbidi tappeti persiani, sui mobili d’epoca brillavano le argenterie messe in bella mostra, salirono la scala a chiocciola che portava alla mansarda.
“Ecco, tu starai qui”, disse Marisa, “spero sia di tuo gusto”, nella sua voce c’era un tono canzonatorio che non sfuggì alla ragazza. Si guardò intorno e pensò che era una sistemazione decorosa: nell’angolo della stanza un lettino, appoggiato alla parete un armadio un po’ rovinato, ma decente, un piccolo bagno era annesso al locale.
“Va benissimo”, rispose .
“Ora ti lasciamo, ti ho messo degli abiti e un po’ di biancheria. Dopo ti dirò cosa devi fare”, aggiunse la donna che la stava guardando insistentemente.
 Rimasta sola Zaira si sedette sul letto a pensare: era contenta di avere un lavoro, si riprometteva di mettercela tutta per cercare di accaparrarsi la simpatia della signora Giannini che sentiva ostile.
Si riposò  poi scese la scala: marito e moglie erano seduti sul divano e stavano prendendo l’aperitivo, due bambini giocavano sul tappeto. La donna si alzò:
 “Ti faccio vedere la casa, così potrai renderti conto di cosa dovrai fare. Tutte le mattine pulirai i pavimenti, una volta alla settimana i vetri….ti insegnerò a fare la lavatrice, poi dovrai stirare…”.
“Scusi”, l’interruppe timidamente Zaira, “il dottore mi aveva detto che avrei dovuto fare compagnia a sua madre..”.
“Tua madre?…è morta due anni fa”, esclamò la donna rivolta al marito, “cosa le hai fatto credere? “
 Il dottore, imbarazzato, arrossì leggermente:
“Sì…quel capitano mi dava sui nervi e, per portarti con me ho detto una piccola bugia …avevo promesso a mia moglie che le avrei dato un aiuto…”, si scusò disorientato cercando di captare lo sguardo di Marisa per farsi perdonare.

Zaira lo guardò perplessa, aspettò un poco prima di rispondere: le venne in mente la miseria dalla quale era fuggita e pensò che in fin dei conti ogni lavoro aveva la sua dignità, purché fosse onesto.
“Non importa, va bene così…se la signora m’insegnerà imparerò presto”, rispose umilmente. C’era soprattutto la certezza che, se avesse avuto delle difficoltà, Vito l’avrebbe aiutata.
. L’incontrò pochi giorni dopo: l’aspettava sulla strada, davanti al cancello, lei gli corse incontro:
“Finalmente…non ne potevo più di vederti”, gli disse buttandogli le braccia al collo.

Lui era in borghese, indossava blue-jeans stinti e un maglioncino celeste, come il colore dei suoi occhi. 
“Fatti guardare…sei sempre bella, ma…c’è qualcosa che non va”, esclamò osservandola da capo a piedi, “chi ti ha dato questo vestituccio ?”, chiese.
“La signora…non avevo altro, e ho dovuto metterlo…”, rispose guardandosi addosso: era un vecchio abito fuorimoda, senza nessuna pretesa di eleganza.
“Vieni…andiamo a comprare qualcosa di meglio”, propose Vito.
Nella boutique dove entrarono la commessa li guardò con curiosità:
“Posso esservi utile?”, domandò esaminando Zaira da capo a piedi.
 Vito scelse qualcosa di suo gusto:
“Prova questo”, propose: era un tailleur pantalone-bianco da indossare sopra un top nero.    
 “No…è troppo elegante”, si schermì lei.
“Fammi solo vedere come ti sta…poi prenderemo anche qualcosa di più pratico”, insistette Vito.
Quando la giovane somala uscì dalla cabina di prova il capitano ebbe un soprassalto: non aveva mai visto nessuna donna indossare qualcosa con tanta eleganza. Sul suo corpo quell’abito di serie acquistava uno stile particolare.
Rimase ad ammirarla sempre più stregato dalla sua bellezza.
 Usciti dal negozio passeggiarono a lungo, si dissero molte cose…stavano bene insieme e il tempo che Zaira aveva a disposizione passò troppo in fretta.
 Cominciò così la loro storia: si incontravano una volta alla settimana e in quelle poche ore capirono che fra di loro stava nascendo un amore prorompente che non si accontentava di parole…avevano bisogno di stare soli, per dare sfogo alla passione che li stava travolgendo.
Una sera, dopo un bacio rubato su una panchina, Vito le chiese di andare da lui…lei tacque, ma nei suoi occhi carichi di desiderio Vito colse la risposta. Così, nel piccolo appartamento, si amarono come era già scritto nel loro destino fin dal primo momento in cui si erano incontrati.
Zaira si stirò pigramente e guardò fuori, vide che stava imbrunendo:
“Devo andare…la signora mi ha dato solo due ore di permesso”, esclamò ricomponendosi.
Vito la strinse a sé ancora una volta:
“ ti voglio per sempre…non mi lasciare”, supplicò.
Accostò il viso al suo:
 “Voglio passare la mia vita con te…ti sposerò”, affermò, era diventato serio, stava dicendo una verità che non avrebbe mai pensato di dire. Fino ad allora nessuna donna gli aveva dato quelle emozioni che aveva provato in quell'ora d'amore.
Lei scosse la testa:
 “Non facciamo progetti…., dopo quello che mi è successo ho capito che la vita va vissuta giorno per giorno”.
Si lasciarono a malincuore e Zaira tornò a casa del dottore aspettandosi i rimbrotti della moglie . Entrò cauta, era in ritardo di mezz’ora e non voleva farsi sentire; i bambini erano nella loro stanza che stavano facendo i compiti. Salì la scala in silenzio, nel piccolo locale sotto il tetto era buio, fece per accendere la luce quando si sentì afferrare, non riuscì a gridare perché qualcosa le tappò la bocca mentre veniva trascinata sul letto.
“Stai buona…”, disse una voce roca, “mia moglie non c’è…ti conviene tacere…”. Sentì sul suo corpo le mani dell’uomo che la toccavano, la frugavano, cercavano di farle violenza. Lo sentì ansimare sopra si sé con orrore. Si ribellò con tutte le sue forze, scalciò e si divincolò finché non riuscì ad alzarsi. Si strappò il cerotto dalle labbra: “Mi lasci dottore…”, implorò. Lui era come impazzito, la schiaffeggiò brutalmente, la prese per le braccia per immobilizzarla ma Zaira si liberò con uno strattone, raggiunse la porta e si precipitò per le scale. L’uomo l’inseguì, si sporse per acciuffarla ma perse l’equilibrio e precipitò, rotolò sui gradini e batté la testa sul pomolo della ringhiera in ferro. Rimase immobile, con gli occhi sbarrati mentre un rivolo di sangue macchiava la moquette della scala. Zaira, in preda al terrore, fissò il corpo del dottor Giannini senza vita, con un braccio proteso nell’ultimo tentativo di afferrare la sua preda. Un silenzio agghiacciante, poi la ragazza si voltò, sulla porta del salone, immobile, c’era Marisa che aveva assistito alla tragedia. La donna puntò un dito contro di lei “Assassina!”, gridò. Il suo urlo invase la casa. Zaira ferma, la fissava incredula: “Noo!…lei ha visto…non sono stata io…”, balbettò sconvolta. La moglie di Giannini si mosse: “Chiamo i carabinieri…l’hai ammazzato!”, nei suoi occhi c’era un odio immenso. Si avvicinò al telefono e prese la cornetta. Zaira istintivamente si mise a correre, attraversò il salone, diede uno spintone alla donna e scappò. Col fiato grosso corse, aveva negli occhi la visione dell’uomo con la testa spaccata e nelle orecchie l’urlo di Marisa.
Correva senza meta per la città deserta, la gente era a cena al riparo nelle loro case e lei era disperata….non sapeva dove andare. Si trovò davanti al portone della casa dove abitava Vito, non aveva il coraggio di suonare e si accovacciò sul marciapiede gemendo come un animale ferito.
Marisa, rimasta sola era impietrita davanti al corpo inanimato del marito, nella mente sconvolta passavano pensieri demenziali: “è stata lei, l’ha ucciso con la sua bellezza…è lei la colpevole…Claudio non aveva occhi che per lei…se non l’avesse portata qui sarebbe ancora vivo…gliela farò pagare…”. Si mosse lentamente, passò davanti alla  specchiera stile Luigi XIV e si fermò: lo specchio le rimandò l’immagine di una donna spenta, il viso segnato dalle rughe e il corpo magro, senza nessuna attrattiva. Ebbe uno scatto di rabbia, e voltò le spalle alla figura riflessa. Si diresse decisa verso un grande quadro, lo tolse dalla parete: dietro c’era una cassaforte. L’aprì e, da una scatola, estrasse un collier d’oro e brillanti.
Senza guardare il corpo del marito salì i gradini della scala a chiocciola, andò nella stanza di Zaira e mise il gioiello sotto il materasso, poi ritornò in salone e si recò nella camera dei bambini che non si erano accorti di nulla:
“Rimanete qui, mi raccomando, deve arrivare un signore importante…poi andrete dalla nonna”, disse con la voce piana, per non spaventarli.

 Per i ragazzini non cambiava nulla, stavano guardando un cartone animato e continuarono tranquilli.

 Vito era ancora in servizio, l’appuntato Gargiulo entrò in ufficio:
“Capitano, una donna dice che c’è stato un omicidio”.

Sorpreso alzò il capo dalle scartoffie: “Dove?”, chiese.
L’uomo gli disse l’indirizzo e Vito sobbalzò: era l’abitazione del dottor Giannini e il suo pensiero andò subito a Zaira.      
"Chi è stato ucciso?”, domandò .

                                                                                              ( continua)



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