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domenica 29 gennaio 2017

UN COLPO DI FORTUNA




 seduto sulla panchina del parco Achille detto “Spugna”, si stava godendo il sole di un inverno mite, l’aria era già carica di primavera, e lui come sempre, non aveva nulla da fare. Un tempo era uno stimato professionista ma la vita era stata così avara con lui che l’aveva relegato nella schiera del barboni, di quelli senza un soldo in tasca che vivevano di espedienti e di elemosina.

 L’uomo, infagottato in un giubbotto pieno di buchi stava osservando la gente che passeggiava e pensava a come racimolare qualche moneta per mangiare un panino e bere l’immancabile bicchiere di vino.

Un bambino si avvicinò:
“Vuoi una merendina?”, gli chiese porgendogli un dolce di cioccolato.

Achille lo guardò e sorrise:

“Ti ringrazio, ma non ho fame”, mentì mentre deglutiva la saliva.

Una giovane donna li raggiunse, prese per mano il bimbo, chiese scusa e si allontanò. Poco dopo si voltò e ritornò sui suoi passi:
“Tenga”, disse mettendo qualche euro nel cappello appoggiato sulla panchina.

Achille, sorpreso non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che la donna e suo figlio erano già al cancello.  L’uomo li seguì con lo sguardo e si accorse che qualcosa era caduto dalle tasche del cappotto della donna. Sembrava un pezzo di carta, Achille si alzò a fatica e lo raccolse: era la ricevuta di una giocata al lotto, chiamò la giovane, ma lei non sentì, il rumore di un camion che passava coprì  la sua voce e quando cercò di  raggiungerli, non li vide più: erano saliti su un autobus…il barbone osservò meglio quel pezzo di carta e decifrò i numeri giocati 13, 17, 48…

“…lo tengo io chissà che non mi porti un po’ di fortuna”, si disse intascando il foglietto.

Quel giorno, non era diverso da tutti gli altri della sua povera esistenza, raccolse l’elemosina e, prima di tornare nella sua soffitta, andò all’osteria dove di solito finiva per ubriacarsi.

Nel locale il televisore acceso stava trasmettendo le estrazioni del lotto. Achille, dopo aver bevuto qualche bicchiere, tirò fuori la ricevuta…ovviamente senza nessuna speranza, solo per curiosità.

Ad un certo punto la sua attenzione si fece più viva, la gentile signorina che annunciava i numeri estratti stava sciorinando uno dopo l’altro quelli che erano segnati sul foglio che teneva in mano….sulla ruota di Roma era uscito un terno secco!! Voleva dire che quella schedina valeva migliaia di euro…

Impallidì, le gambe cominciarono a tremare, non si reggeva in piedi…ma ebbe la forza di non far trasparire il miracolo che stava vivendo, si rimise a sedere:
“Portami ancora da bere….”, gridò facendo voltare tutti.

“Basta Spugna…dagli un taglio…vai a dormire…”, gli disse l’oste prendendolo per un braccio.

“No…portami una bottiglia di quello più caro…”, disse Achille senza alzarsi dalla sedia.

“Mi devi ancora pagare quello di ieri…per stasera chiudo il conto”, ribatté il padrone.

“ Domani saldo tutto…stai tranquillo…”, biascicò Spugna.

Ormai era conosciuto in quel bar e sapevano che se non lo avessero accontentato non se ne sarebbe andato, così gli portarono ancora una bottiglia…

Con le gambe malferme Achille salì le scale e aprì la porta della soffitta, tolse dalla tasca del giubbotto il biglietto vincente, lo nascose in un posto che riteneva sicuro, e si buttò sulla branda addormentandosi di  botto, pieno di alcool fin sopra i capelli.

Si svegliò il mattino dopo ancora intorpidito, prima di rendersi conto di ciò che gli era capitato ci volle qualche minuto…poi ricordò…“Accipicchia…sono diventato ricco…”, si disse incredulo.

Si lavò sotto l’acqua fredda e si preparò ad uscire, voleva andare subito nella ricevitoria per realizzare la vincita capitatagli dal cielo senza nessuna fatica…

Cercò nel nascondiglio dove credeva di aver messo la ricevuta del lotto, ma non la trovò…con le mani nervose e con il cuore che gli usciva dal petto frugò dappertutto, svuotò i cassetti, rovesciò le tasche, guardò sotto i mobili… “Accidenti a me…sono un maledetto ubriacone…, chissà dove l’ho messa”, piagnucolò.

Si sedette sul letto e si prese la testa fra le mani , spremette le meningi, cercò di ricordare le mosse fatte la sera precedente…invano, il cervello non rispondeva e la ricevuta era sparita…

Tornò all’osteria e ordinò da bere…“Hai una faccia….cosa ti è successo?”, gli chiese Marco, il ragazzo che aiutava al bar. Spugna lo guardò senza fiatare e tracannò un bicchiere dopo l’altro.

 “Non avete trovato per caso una schedina del lotto?”, disse poi sperando in un miracolo.

L’altro lo guardò stupito: “No…”, rispose, “avevi vinto per caso?”.

Achille scoppiò in singhiozzi e confessò la sua disgrazia. Al tavolo accanto un tale li stava ascoltando, si alzò e andò a sedersi vicino al poveretto in lacrime.

“Tu sai chi sono io?”, chiese con un accento straniero. Il barbone scosse la testa in segno negativo.

“ Sono Klaus… qui mi chiamano lo scienziato pazzo….”, disse il nuovo venuto fissandolo.

Achille, sotto l’influsso del vino lo guardava senza capire:

“Lasciami in pace”, disse sgarbato, “ho le mie grane…”.

“Solo io ti posso aiutare”, affermò l’uomo, “però devi fare tutto quello che ti dirò…poi ti ricompenserò molto bene, non te ne pentirai”, il tono della sua voce era suadente come il canto di una sirena.

“Se riesci a farmi trovare quel biglietto, ti giuro che non mi tirerò indietro davanti a nulla”, rispose Spugna cadendo nella rete.

“Allora andiamo subito”, propose pronto l’altro aiutandolo a rimettersi in piedi.

Il laboratorio dello scienziato pazzo era in un seminterrato, i due uomini alzarono a fatica la serranda arrugginita ed entrarono in un posto incredibilmente zeppo di macchinari strani, alambicchi e provette, grovigli di fili elettrici e spine varie. Achille si guardò intorno sbalordito, quei congegni meccanici lo intimorivano, non ne capiva niente e gli mettevano ansia, il primo impulso fu di scappare.

Klaus gli lesse negli occhi il proposito di darsela a gambe:

“Stai tranquillo, non ti succederà niente, vieni…”, disse invitandolo a sedere su una poltrona che aveva tutta l’aria di una sedia elettrica.

“Sei sicuro di quello che fai?”; domandò Achille tirandosi indietro.

“Non mi fare arrabbiare…hai promesso che farai tutto ciò che ti dirò…se vuoi ritrovare quel pezzo di carta…”, affermò lo scienziato con la faccia scura, “a me non interessano i soldi,   questa è un’occasione da non perdere, ti farò ritornare al momento in cui hai trovato il biglietto…”, continuò l’uomo prendendo per le spalle il poveretto e obbligandolo a sedersi su quell’aggeggio infernale.

Per fortuna Spugna aveva bevuto più del necessario e aveva in corpo il coraggio dell’incoscienza. Si lasciò applicare degli elettrodi ai polsi.

“Sei pronto?”, chiese Klaus, “se ti trovi in difficoltà e vuoi smettere batti un colpo con la mano destra”.

Il barbone non fece a tempo a rispondere che sentì una scossa attraversargli il corpo, gli occhi si chiusero e si sentì leggero come l’aria. Poco dopo era seduto sulla panchina del parco nella stessa posizione del giorno prima. Si rendeva conto di vivere ai confini della realtà, ma gli sembrava naturale, “ e adesso cosa mi succederà?”, si stava chiedendo. Il bimbo si avvicinò offrendogli il biscotto, la mamma lo richiamò, poi la donna gli mise nel cappello delle monete…tutto come il giorno precedente…si vide raccogliere da terra la ricevuta…era veramente tornato indietro nel tempo, ma era come se si rivedesse in uno schermo, unico spettatore del film della sua giornata…seguiva con ansia ogni sua mossa, era curioso di scoprire dove aveva messo quel benedetto foglio di carta!

Seguì lo spettacolo di se stesso ubriaco, si insultò mentalmente ripromettendosi di non bere più…si rivide salire le scale della soffitta e nascondere la ricevuta del lotto dentro una scarpa vecchia, che si era cacciata sotto il letto…  “Evviva!!!”, aveva ritrovato la fortuna. Ormai non gli interessava più sapere cosa aveva fatto dopo e bussò violentemente sulla panca per interrompere l’esperimento.

Quando riaprì gli occhi Klaus era seduto per terra, i capelli già scomposti in precedenza erano ritti sulla testa:
“Cosa hai visto”?, chiese fissandolo con gli occhi sbarrati.

Achille ancora intontito non rispose subito…l’altro lo scrollò: “mi dici quello che hai visto???”, urlò .

 “So  dove ho messo la schedina.....”, rispose Spugna fissando il vuoto.

Il grido di vittoria uscì dal petto dello scienziato: “Sono un genio….sono un genio…”, ripeteva ballando intorno alla sedia magica…ma ad un tratto un lampo, un boato e la poltrona sulla quale era seduto poco prima Achille andò in fumo…

Klaus si precipitò accanto alla sua creatura: “No…no…!”, urlava con le mani nei capelli, ma ormai non c’era più nulla da fare…era bruciato tutto…

Il barbone, impaurito, scappò a gambe levate…stava vivendo dei momenti che non avrebbe mai avuto il coraggio di confessare a nessuno, tanto non sarebbe stato creduto…

Attraversò il  parco e si fermò ansimando per prendere fiato, un colpo di vento gli fece ruzzolare un foglio di giornale fra le gambe…innervosito cercò di toglierlo, lo sguardo cadde su un titolo:
“Vince un terno al lotto, ma perde la schedina”, diceva il quotidiano.

Il cuore di Achille cominciò a battere più in fretta : quella schedina era dentro la vecchia scarpa nella sua soffitta!  Si sedette su una panchina per leggere l’articolo: apprese che  la donna  era disoccupata e in difficoltà, aveva parecchi debiti, l’affitto, la luce e il gas da pagare… aveva giocato per disperazione e aveva vinto, quei soldi avrebbero risolto tanti problemi…ma il destino le aveva voltato le spalle ancora una volta e le aveva fatto perdere la vincita.

 Spugna tornò a casa lentamente, quella notizia l’aveva sconvolto…per una volta tanto che gli era capitato un colpo di fortuna era avvelenato dai rimorsi…non ci teneva nemmeno più a tornare nella soffitta e trovare la schedina …si augurava quasi che l’esperimento fosse stato soltanto un sogno causato da quell’infernale macchina, “é impossibile ritornare al passato”, si diceva.

Ma, lo scienziato non era così pazzo come dicevano…fra scienza e magia aveva rivoluzionato il tempo…e  la schedina vincente era proprio sotto il suo letto! Con le mani tremanti il povero barbone si fermò a fissare incredulo quel pezzo di carta.....

 Così la coscienza di Achille entrò in crisi: la sua parte onesta gli diceva che avrebbe dovuto restituirla, ma la ribellione che aveva dentro gli suggeriva di agire diversamente…  anche lui aveva tanti conti in sospeso con la vita! E forse quello era il momento di incassare ciò che gli era stato tolto…aveva perso il lavoro per un’ingiustizia, si era trovato solo, senza famiglia e con tanta amarezza…di conseguenza aveva deciso di estraniarsi dalla società e a poco a poco era diventato un barbone…

Passò la giornata senza uscire di casa combattuto dai sentimenti contrastanti che lo tormentavano, si faceva tante domande senza risposta e non sapeva decidere…Quella notte non dormì un solo minuto, rivedeva il bimbo che gli offriva il biscotto, la giovane madre che lo teneva per mano e se ne andavano lungo il viale…quelle due figure lo perseguitavano…pensieri opposti gli frullavano nella mente …in fin dei conti cosa ne avrebbe fatto lui di tutti quei soldi?…ormai si era abituato a vivere ai margini e sinceramente non gli importava più avere agi e comodità…però non voleva nemmeno rinunciare a tutto, la fortuna forse aveva scelto lui e non gli altri…. arrivò l’alba del giorno dopo e decise di tenersi stretto il biglietto: uscì per andare a  incassare la vincita, ovviamente nella ricevitoria di un’altra città…In strada dentro di lui c’era l’inferno…ma credeva di ritrovare la pace andando a riscuotere del denaro che gli avrebbe dato un po’ di felicità…Ad un certo punto si trovò a passare davanti all’insegna del giornale, il quotidiano locale sul quale aveva appreso la notizia. Si fermò di  botto sul marciapiede, rimase così per qualche minuto, poi entrò nel portone, salì le scale e si presentò alla redazione, dichiarò al giornalista che lo ascoltava stupefatto che aveva trovato la schedina vincente e che voleva restituirla al legittimo proprietario….. Mentre parlava sentiva sciogliersi nello stomaco quel grumo che si era formato da ore…un enorme sospiro di sollievo gli salì alla gola e si sentì libero…Con quel gesto Spugna ritornò a vivere in pace.

Una sera qualcuno bussò alla porta della soffitta: la donna e il bambino erano sulla soglia.
“Ti ringrazio…nessuno avrebbe fatto questo…tieni”, disse porgendogli una busta, “qui dentro c’è quello che ti spetta per avermi riportato la giocata…buona fortuna”, concluse abbracciandolo, il bimbo lo salutò con la manina: “Ciao nonno”, disse.
 Se ne andarono prima che Achille avesse il tempo di rendersi conto che la giovane gli aveva regalato metà della vincita…

Spugna era frastornato, non c’erano spiegazioni in ciò che gli era capitato: il mistero era entrato nella sua vita… per festeggiare andò all’osteria a bere un bicchierino: “Giuro che è l’ultimo”, si disse poco convinto mandando giù un sorso di grappa.

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



domenica 22 gennaio 2017

L'OMBRA DI LARA


 


 

  



L'uomo che entrò nell’agenzia “Lince”, di Walter Nardi, era un tipo sulla quarantina, tarchiato, pochi capelli, viso marcato dove si notavano gli occhi chiari, grigi, metallici; molto accurato nel vestire, pantaloni di flanella con la piega e cappotto blu di cachemire.

L’investigatore l’osservò per un secondo, aspettò che parlasse poi:

“Desidera?”, chiese visto che dal nuovo venuto non arrivava nessun cenno di approccio.

L’altro fece qualche passo in avanti:

 “Posso sedermi?”; chiese scostando la sedia davanti alla scrivania.
 Si guardò intorno, sembrava intimidito dall’ambiente e dallo sguardo indagatore del suo interlocutore.

“Sono venuto a chiederle aiuto”, affermò infine, “ mia moglie Lara è scomparsa, da tre giorni non so più nulla di lei”, le parole gli uscivano a fatica, come se sul suo petto ci fosse un grosso peso.

Walter scosse il capo: “Perché non si rivolge alla Polizia?”, domandò.

“No!”, esclamò l’uomo, “non voglio per il momento avere a che fare con le forze dell’ordine, mi stravolgerebbero l’esistenza, vorrei soltanto essere sicuro che ciò che penso potrebbe essere vero”.

“E…cosa pensa?”, chiese incuriosito il detective

“So che aveva una relazione con un altro, eravamo sul punto di separarci, ma non avevo perso la speranza di recuperare il nostro matrimonio, ultimamente era molto più disponibile con me

avevamo deciso che ci avremmo riprovato”, affermò tutto d’un fiato.
Esitò un secondo poi riprese:  "Sono un medico, per la precisione un anestesista, mia moglie era infermiera e lavorava con me, tre sere fa eravamo usciti insieme dall’ospedale, ero molto stanco e andai a casa prima di lei che voleva fermarsi dal parrucchiere. Di solito impiegava circa un’ora, purtroppo l’aspettai invano, il tempo trascorreva inesorabile ma lei non tornava, passai momenti d’angoscia, il cellulare era spento, non sapevo a che santo votarmi… sperai perfino che mi dicesse che mi aveva lasciato per quell’altro, ero talmente spaventato che l’avrei anche perdonata, bastava che si facesse viva. Telefonai dappertutto, ai parenti, nei vari ospedali, camere mortuarie. Da quel momento si è come volatilizzata!”.

L’uomo era emozionato e Walter si sentì in dovere di rincuorarlo:
  “Si calmi, non pensi al peggio, ho trattato molti casi di persone scomparse, vedrà che la ritroveremo…però dobbiamo metterci al lavoro; ho bisogno di sapere tante  cose su sua moglie, lei mi capisce vero? Mi servono per iniziare la ricerca”, disse l’investigatore.

Il nuovo venuto si presentò come dottor Alberto Fantini, e Walter come sua abitudine cominciò a frugare nella vita di Lara.

Una domanda dopo l’altra e  scoprì che si era innamorata di Sergio, un giovane collega e che si era rivolta ad un avvocato per le pratiche del divorzio dal marito. Volle sapere tutto quello che Lara aveva fatto fino  momento della scomparsa.

Il giorno dopo si mise subito all’opera e il primo ad essere contattato fu il parrucchiere:

“Sì, la signora è  venuta per una messa in piega, saranno state le sei di sera, poi non so…presumo sia andata a casa”,disse Mario il coiffeur, “perché? “, continuò curioso.

 “E’ soltanto un’informazione”, rispose evasivo il detective.

Poi, come un segugio di razza continuò a seguire la sua pista. Arrivò all’uomo che aveva turbato i sonni di Lara: Giacomo il fisioterapista, un ragazzo che aveva dalla sua un bel fisico e la gioventù. “Non capisco, non mi ha più telefonato e non è venuta nemmeno a lavorare, forse non sta bene”, rispose il giovanotto preoccupato..

Lara proveniva da un paese dell'Est e non aveva parenti in  Italia, aveva trovato lavoro in ospedale dove aveva conosciuto il dottor Fantini che l’aveva corteggiata con tanta insistenza fino a quando lei gli aveva detto di sì. Forse senza amore, sicuramente per riconoscenza, aveva capito che quel medico si era preso una bella sbandata, ne aveva approfittato per pianificare l’ avvenire e così era diventata sua moglie.

 Sfumata la traccia della fuga d’amore, il detective non sapeva più dove battere la testa, ogni tanto il dottore si faceva vivo per chiedere se c’erano novità e ogni volta se ne andava deluso con una faccia da cane bastonato. Ormai erano passati quindici giorni, Walter brancolava nel buio più fitto, ma non voleva arrendersi, continuava imperterrito a stanare qualsiasi cosa che gli potesse essere utile per ritrovare Lara. Una sera il medico entrò inaspettato in agenzia:
 “Carissimo signor Nardi, Lara non torna più”, affermò appoggiando le mani sulla scrivania, aveva un’aria strana, come di chi si fosse tolto un peso dallo stomaco.

“Cosa è successo?”, chiese l’investigatore colto alla sprovvista guardandolo con aria interrogativa..

“E’ tornata a casa sua, mi ha telefonato dalla Romania annunciandomi che non mi ama più”, affermò l’uomo, “perciò la prego di sospendere le indagini, ormai non è più necessario”, concluse tirando fuori un libretto degli assegni.
 Walter rimase sconcertato, si rese conto che aveva lavorato per niente , ma se c'era questo risvolto nella storia di Lara non poteva fare più nulla.

Quando il dottor Fantini se ne andò, prese la pratica di Lara e l’archiviò:
 “Peccato che tutto si sia interrotto, però…non c’è male come cifra ”, pensò dando un’occhiata all’assegno del medico.

 Quando, la mattina dopo tornò in ufficio, rimase sbalordito: il fascicolo riguardante la scomparsa di Lara era sulla scrivania, come se qualcuno l’avesse tolto dall’archivio e appoggiato in bella vista accanto al telefono.

“Eppure ieri sera ricordo di averlo messo via, non capisco…”, disse fra sé, sollevò la cartella per riporla di nuovo nello scaffale alle sue spalle e la foto di Lara cadde sul pavimento. Un’ombra attraversò la stanza oscurando la luce della finestra, un brivido corse lungo la schiena del detective che si strinse nelle spalle.“In questo locale fa sempre freddo...”, borbottò.

Raccolse la foto e la rimise a posto, si girò per sedersi, un leggero rumore lo fece voltare: l’immagine della donna era di nuovo per terra.

“Va bene, ti metto via dopo”, mugugnò spazientito appoggiando il ritratto davanti a sé.  Quel viso di donna rimase lì tutta la giornata,  Walter aveva l’impressione di essere seguito da quegli occhi chiari che sembrava gli chiedessero aiuto…era una sensazione così strana che gli metteva ansia, smise di lavorare a un nuovo caso perché non riusciva a concentrarsi.

Uscì a prendere aria ma non poteva fare a meno di pensare a Lara, c’era qualcosa che lo tormentava, forse il fatto che improvvisamente aveva dovuto smettere di occuparsi di lei proprio quando si era appassionato nella ricerca di quella donna che non aveva lasciato nessuna traccia dietro di sé. Nella sua vita non c’era nulla che lasciasse prevedere l’improvvisa partenza, da ciò che gli aveva detto il marito non mancava nulla in casa, le valigie e gli oggetti personali erano rimasti al loro posto. Anche il giovane amante era all’oscuro di tutto. Più ci pensava e più si convinceva che c’erano molti punti oscuri nella storia di Lara.

Rientrò in ufficio, si era già fatto buio e decise di chiudere, ormai la giornata era conclusa, stava uscendo quando lo sguardo venne attratto da un oggetto sotto la scrivania; si chinò e s’accorse che era un  cellulare, probabilmente del dottor Fantini l’unico cliente sedutosi sulla sedia.. Lo contattò immediatamente e si offrì di portargli il telefonino in ospedale.

“Lei è molto gentile, la ringrazio, disse il medico, “se può venga subito, ho finito il turno e sto andando a casa, l’aspetto davanti all’entrata”. S’incontrarono, fecero quattro passi insieme lungo il  viale dell’ospedale illuminato a giorno, passando sotto i lampioni le ombre si allungavano sul marciapiede. Walter chiacchierava con Fantini, a un tratto notò che l’ombra di una figura femminile era proiettata sull’asfalto accanto a quella del medico, si girò per vedere chi fosse, ma dietro loro non c’era nessuno…lo strano fenomeno lo spaventò e ammutolì, salutò in fretta il suo interlocutore, l’osservò mentre si dirigeva all’auto sbalordito dal fatto che anche l’ombra  di donna lo seguiva.
  Si mise una mano sulla fronte che scottava, fuggì da quel luogo in preda alla paura, cosa gli stava succedendo? Stava impazzendo?, Già in agenzia l’inspiegabile storia del dossier e del ritratto che continuava a comparire, l’aveva impressionato. Si convinse che c’era qualcosa di anomalo, un grande mistero avvolgeva la figura di Lara.  Una notte come quella non l’avrebbe più dimenticata: il sonno tormentato dagli incubi gli lasciò la testa pesante e le occhiaie, si alzò che era più stanco di quando era andato a dormire. Ma il segugio che era in lui prese il sopravvento, ricominciò a cercare Lara come fosse il primo giorno. Dov’era finita la moglie del dottor Fantini? Ora non credeva più che fosse partita, doveva trovarla ad ogni costo. Per mezzo della sua rete d’informazione e grazie alle generalità della donna, che gli aveva fornito a suo tempo il medico, riuscì a contattare il paese d’origine di Lara e la risposta non gli piacque: nessuno l’aveva più vista da quelle parti. “ perché il marito mi ha detto una bugia? “, si chiese. Anche se non gli rendeva nulla ormai voleva sapere quella verità che aveva paura di conoscere. Decise perciò  di mettersi alle calcagna del dottore, lo seguì passo passo per giorni interi, ma sembrava che quell’uomo fosse una specie di santo: conduceva un’esistenza banale, anzi  cristallina: casa e lavoro e niente altro. Andava in ospedale , rincasava e non si muoveva più fino al giorno seguente, mai un’uscita con gli amici, in casa non riceveva nessuno, una vita piatta e monotona. Però Walter, con pazienza da certosino si appostava per ore e seguiva il medico dall’ospedale a casa, ogni sera, e non lasciava l’appostamento finché non vedeva le finestre del suo appartamento spegnersi:  soltanto dopo, anche lui, se ne andava a dormire. Non erano sonni tranquilli, ogni notte Lara gli appariva in sogno, era bionda con gli occhi chiari e quegli occhi erano il suo tormento, lo seguivano ovunque.

Una mattina Fantini non andò al lavoro, Walter era gia lì nel solito orario, lo vide uscire  ma invece di andare all’ospedale prese un’altra strada. Il detective lo seguì, finalmente c’era una novità, non se lo sarebbe lasciato scappare per tutto l’oro del mondo. Il medico si fermò da un fioraio e acquistò delle rose rosse, era un mazzo grande, forse una dozzina. Risalì in macchina e  uscì dall’abitato, imboccò l’autostrada, viaggiò per un centinaio di chilometri poi uscì al casello di un paese montano, prese una strada tortuosa che si arrampicava sui monti. “Chissà dove va a finire?”, si disse Walter che lo seguiva sempre più incuriosito. Finalmente la sua preda si fermò davanti ad una villetta costruita su uno strapiombo, in una stupenda posizione che dominava la valle. Era una bella giornata, il sole illuminava le cime innevate, l’investigatore oltrepassò la casa e fermò l’auto più avanti in un punto nascosto, uscì dalla vettura e si strinse nelle spalle: faceva un freddo cane, si guardò intorno e cominciò a scendere sulla strada avendo cura di non farsi notare.  Vide che il dottore aveva oltrepassato un cancello, che poi aveva chiuso a chiave dietro di sé. La casa era disabitata, le persiane di legno erano sbarrate, poco dopo Fantini aggirò la villetta e  scomparve alla vista del detective,

“Accipicchia, non riesco più a vederlo”, si disse allungando il collo, in quel momento una ventata gelida gli fece venire la pelle d’oca e d’improvviso il cancello si spalancò. L’uomo oltrepassò la soglia e si diresse verso il retro: il dottor Fantini stava appoggiando le rose sotto un grande pino, si alzò e rimase assorto per qualche minuto, come in  preghiera, poi si voltò: aveva sentito un rumore alle sue spalle. Vide l’investigatore che lo stava osservando, nei suoi occhi non c’era né paura né stupore, solo una tranquilla follia.
 “Buongiorno signor Nardi, ormai ha scoperto il mio segreto…Non è più necessario che cerchi Lara, lei è qui nell’aria pura dei monti, le porto le rose che le piacevano tanto e sono certo che la faccio felice, ora è soltanto mia”, disse con il tono monocorde di chi non sente più nulla. Lorenzo era impietrito, aveva sospettato di lui ma ora che l’aveva davanti, gli suscitava una grande pietà, con cautela si avvicinò.

“Com’è successo, dottore, mi vuole raccontare?”, chiese sforzandosi di apparire più naturale possibile. L’altro si chinò. Raccolse una rosa, la baciò e la rimise a posto:

“Adesso le dirò tutto: Lara non ha sofferto, l’ho addormentata come faccio sempre con i miei pazienti in sala operatoria, e poi, quando è morta l’ho portata sotto questo albero…vengo a trovarla spesso … non le sembra giusto quello che ho fatto? Io l’adoravo e lei voleva andarsene con quel tipo… Ora è tutto finito, la devo raggiungere”, concluse.

Il detective non fece in tempo a trattenerlo, fu un attimo, l'uomo prese la rincorsa e si lanciò nel baratro, il suo corpo fluttuò nell’aria poi si sfracellò sulle rocce. L’ombra di Lara oscurò il sole.

 

 FINE

 

 

 

domenica 15 gennaio 2017

LA MACCHINA DEL TEMPO


 

 

 Piovigginava  nel giorno della festa del patrono, e c’erano poche persone fra le bancarelle che ogni anno arrivavano puntuali a esporre la loro merce. Tiziana e Marina passeggiavano, fermandosi ogni tanto a guardare le cianfrusaglie esposte, non c’era niente che le attirava, osservano e passavano oltre. Più avanti un personaggio vestito di bianco cercava di attrarre i clienti a entrare in un tendone simile a quello di un circo.

“Venite a provare la macchina del tempo, scoprirete chi siete e da dove venite…Solo cinque euro, signori, è un’ottima occasione per sapere la verità sul passato e sull’avvenire”, gridava quel tale da un megafono.
Marina si fermò incuriosita:  “Andiamo?”, chiese all’amica .
L’altra alzò le spalle: “Soldi sprecati, non crederai a queste fandonie”.
“E’ un pomeriggio così noioso, ci faremo quattro risate”, disse ancora la ragazza.
“Va bene, hai ragione, tanto per passare il tempo”.
Pagarono il biglietto ed entrarono: poche sedie in  circolo e uno strano marchingegno al centro, c’erano molti posti liberi, e le due amiche sedettero non lontane dalla macchina del tempo.
Poco dopo uno squillo di tromba e un uomo abbigliato con una giacca a lustrini sollevò una tenda di velluto e venne avanti:”Grazie per essere presenti, c’è qualcuno del pubblico che vuole sottoporsi al mio esperimento? E’ una cosa senza nessun pericolo, anzi sarà un piacere per voi, vi trasporterà in un mondo lontano di cui non avete più nessun ricordo e saprete cose che mai avreste saputo”, si fermò e cercò un volontario fra il pubblico, passò qualche secondo in un silenzio imbarazzante,  poi una voce di donna ruppe quell’atmosfera incantata:
“Vengo io!”, disse Marina.
Tiziana la guardò sorpresa: “Sei matta? Cosa ci vai a fare”, esclamò.
Ma ormai la ragazza era già al centro della pista accanto a quell’uomo che sembrava uno stregone.
Marina sedette sullo sgabello rigida, si fece avvolgere da fili elettrici, mentre il tipo con i lustrini la fissava negli occhi. Lentamente sentì un torpore impadronirsi del suo corpo e vagò nel sogno: una carrozza trainata da bianchi destrieri percorreva veloce un lungo sentiero che attraversava un bosco di  alberi secolari, improvvisamente, dai cespugli sbucarono degli uomini armati che obbligarono la carrozza a fermarsi. La tendina si scostò, non si vide il viso, ma si sentì un urlo di donna: “Aiuto!”. Nel sogno apparve poi un cavaliere sbucato dal nulla, che fece fuggire i banditi, mentre la sconosciuta si abbandonava con un gemito sui sedili. Il prode salvatore aiutò la giovane ad uscire…poi Marina sentì un leggero tocco sulle guance, un brivido la percorse e si svegliò intorpidita.
L’uomo accanto a lei l’osservò: “Come sta?”, chiese.
La ragazza non rispose, assentì con il capo, poi si guardò intorno, lentamente stava tornando alla realtà.
“Bene”, sussurrò poi.
“Ricorda qualcosa?”, insistette lui.
“No”, rispose lei, “ho fatto un sogno confuso”.
“Non importa, ha risposto alle mie domande, io so dov’è stata. La ringrazio, si può accomodare”, concluse soddisfatto mentre scoppiava tra il pubblico un applauso.
“Non ti ricordi proprio nulla?”, chiese Tiziana quando Marina tornò al posto guardandola sbalordita, “da come rispondevi sembrava che tu fossi nel medioevo; parlavi di un cavaliere… quell’uomo ti ha ipnotizzata e ti ha fatto dire quello che voleva, non credi?”.
Marina uscì dal tendone disorientata: “Non so, mi sento strana, ho bisogno di aria”.
Si riprese in fretta, e cominciò a scherzare: “Forse, hai ragione, quello là sotto ipnosi mi ha usata come ha voluto, la macchina del tempo è una bella bufala. Andiamo a prenderci un gelato, ho la gola secca”, concluse allegramente. Marina era una ragazza positiva, non credeva a nulla che non fosse la realtà che stava vivendo, perciò quell’esperienza la lasciò scettica come lo era sempre stata. Era una brava infermiera e aveva sempre prestato la sua opera negli ospedali dei paesi del terzo mondo dove c’era più bisogno di solidarietà per chi non aveva nulla. In quei giorni stava aspettando la chiamata per la nuova destinazione
“Sai dove ti manderanno?”, chiese Tiziana mentre stava golosamente gustando il suo gelato al pistacchio.
“Forse in Somalia, mi piacerebbe ritornarvi, là ho tanti amici, e poterli rivedere sarebbe stupendo. Senza contare che c’è un giovane medico che mi faceva il filo e magari…potrebbe essere la volta buona! Le notti di luna piena in Africa sono magiche!”, scherzò
“Brava Marina, sei straordinaria, io non ho il tuo coraggio e ti ammiro. Però promettimi che tornerai presto so già che appena partita mi mancherai”, le disse l’amica sorridendo ammirata.
 Non passò neppure una settimana,  che Marina fu contattata per il nuovo incarico e proprio nel posto che si aspettava. Con entusiasmo cominciò i preparativi per il viaggio, da quel momento diventò tutto più facile: ciò che voleva si era realizzato e aspettò il giorno della partenza con ansia.
Sull’aereo era felice, arrivò a destinazione stanca, ma appena rivide l’èquipe ospedaliera, e  tutto lo staff del piccolo ospedale, la stanchezza sparì per fare posto all’euforia. Anche Fabio, il dottore che le aveva fatto a suo tempo una corte discreta, si lasciò andare e l’abbracciò stretta facendole quasi mancare il respiro:
“Aiuto! svengo ai tuoi piedi e mi dovresti rianimare”, esclamò Marina.
“Lo farei volentieri, però con il metodo bocca a bocca”, affermò lui mentre gli occhi gli sorridevano.
Così ricominciò il suo lavoro, ogni giorno arrivavano donne con  bambini denutriti, con le pancine gonfie e lo sguardo smarrito. C’era molto da fare, e i momenti di riposo erano pochi. Marina, molte volte, sfinita dalla giornata di lavoro, si rilassava sedendosi all’aperto nel silenzio magico della notte africana interrotto solo dalle grida degli animali notturni, e provava la strana sensazione di sentire una presenza accanto a lei.
 Però non era una cosa spiacevole, anzi sentiva come se qualcuno la proteggesse e facesse in modo di appianare le difficoltà della vita. Infatti stava trascorrendo un periodo felice, anche Fabio, nella famosa notte di luna piena l’aveva baciata, così oltre alla soddisfazione sul lavoro, anche l’amore era entrato dalla porta principale, tutto filava liscio.
Una di quelle notti in cui cercava la pace interiore era immersa nei pensieri, non si accorse della presenza di Fabio, la sua voce la fece sobbalzare:
 “A cosa stai pensando?, sembra che tu sia in un'altra dimensione”, le disse arrivandole alle spalle.
Marina infatti stava andando indietro nel tempo e in quel momento stava ripensando ai minuti passati sulla macchina accanto all’uomo con la giacca di lustrini, quell’assurda esperienza della quale non ricordava nulla se non il fatto di essersi svegliata mentre stava facendo un sogno.
“Vieni, ti racconto cosa mi è capitato poco prima di partire”, disse. Cominciò a parlare e l’attenzione di Fabio si fece più intensa. Quando ebbe finito lui le cinse le spalle con un braccio:
 “Tu non credi a queste cose, ma è possibile che con l’aiuto dell’ipnosi tu sia regredita nel tempo, la tua amica ti ha detto che, rispondendo alle domande che ti faceva quel tale, sembrava fossi tornata in un’epoca di dame e cavalieri, non ricordi nulla?”, chiese il giovane medico.
 Marina lo guardò smarrita, poi chiuse gli occhi e, improvvisamente ritornò al sogno, vide la carrozza, i briganti, udì il galoppo, e sul cavallo vide il cavaliere nero.
Afferrò le mani del suo uomo, confusa e attonita: “Ora so tutto”, disse con un filo di voce.
Fabio la scosse: “Stai bene?”, chiese preoccupato. Lei annuì, ma non se la sentì di parlare.
“Non ti preoccupare, mi dirai poi, adesso rilassati”.
Ma non ci fu tempo per tornare sull’argomento, un’ improvvisa telefonata al cellulare di Fabio lo richiamò in corsia, poco dopo tornò fuori sconvolto:
 “Dobbiamo partire subito, al villaggio urgono medicinali, ci sono dei poveretti in pericolo di vita”, disse affannato, “però io non posso lasciare l’ospedale,  sono l’unico medico rimasto, gli altri sono andati a prendere il carico dei medicinali all’aeroporto e non sono ancora tornati.
“Non ti preoccupare, ci vado io, Amir viene con me e in poche ore siamo sul posto, stai tranquillo”, disse Marina rientrando immediatamente alla realtà.
“Mi raccomando, stai attenta, non ti fermare mai, quella strada è pericolosa”, affermò Fabio ansioso.
 Marina si accinse a partire, dopo aver caricato la jeep si mise accanto all’autista e se ne andarono accompagnati dallo sguardo di Fabio che si sentiva colpevole per non aver potuto accompagnarla..
 
La strada era buia, illuminata soltanto dai fari della camionetta, in un primo tratto attraversava la foresta, poi si immetteva in un rettilineo di cui non si vedeva la fine.
 Avevano già percorso il tratto più pericoloso, e si trovavano sulla strada, cominciava ad albeggiare e il viaggio stava procedendo nei migliore dei modi. Marina era in contatto con Fabio, e lo stava rassicurando sull’ottimo andamento. “Stai tranquillo, tutto bene, siamo quasi arrivati”.
 Dopo pochi chilometri entrarono al villaggio, ormai il sole era già alto e chi li accolse li ringraziò talmente che si sentirono quasi dei santi.
Consegnarono i farmaci al medico dell’ambulatorio: “Avete salvato molte vite, grazie. C’è stata un’imboscata e abbiamo molti feriti da curare, eravamo scarsi di tutto. Grazie ancora”, nei suoi occhi c’erano quasi le lacrime.
 Soddisfatti di aver compiuto il loro dovere, Marina e il ragazzo nero che guidava la jeep, si misero sulla strada del ritorno. Stavano andando veloci per arrivare presto, erano stanchissimi e il pensiero di fare una doccia e una dormitina metteva le ali alle ruote della loro vettura. Ma la fretta in quella circostanza non giocò a loro favore, il motore sollecitato al massimo cominciò a singhiozzare finché si fermò lasciandoli in mezzo alla strada sotto il sole .
“E adesso? Cosa facciamo?”, chiese disorientato Amir.
“Non ci perdiamo in un bicchier d’acqua”, rispose risoluta Marina, “telefono al dottor Fabio e vedrai che ci manderà a prendere”. La giovane infermiera era abituata a risolvere i problemi senza perdersi d’animo e anche in quella circostanza prese le redini e informò l’ospedale del guasto.
“Aspettateci, arriviamo al più presto”, rispose Fabio .
Poco dopo il rumore di un motore si sparse per l’aria, in fondo alla strada, quasi all’orizzonte si delineò la sagoma di un veicolo:
 “Eccoli!”, esclamò Il negretto.
“Non possono essere loro, è passato troppo poco tempo dalla telefonata”, rispose Marina allarmata.
Mano a mano che quel veicolo avanzava la cosa si faceva sempre più preoccupante, infatti, sulla camionetta c’era una gentaglia nera e vociante, in un attimo fu accanto a loro minacciandoli con  le armi puntate. Gridavano e cercavano di strattonare la ragazza per farla salire sulla loro jeep sgangherata. Marina opponeva resistenza ma sebbene fosse forte, non riusciva a contrastare i due energumeni .
 “Aiuto!”, gridava, ma nessuno poteva soccorrerla poiché anche Amir, spaventato e tremante era immobilizzato dal resto della banda. I due guerriglieri erano riusciti a spingerla sul loro veicolo quando il rumore ritmico di un cavallo al galoppo li fermò. Non fecero in tempo a voltarsi che un cavaliere con il viso coperto dalla celata di un elmo nero, sollevò Marina dal sedile e la rimise a terra: “Sono qui, non temere”, disse. Poi, minacciandoli con la lancia, si rivolse ai rapitori che, terrorizzati ingranarono la marcia e con uno scatto da Formula Uno scapparono da quel diavolo apparso improvvisamente dal nulla. Che, come era venuto, sparì, dopo aver messo in fuga i rapitori.
  Marina, immobile per tutto il tempo in cui si svolse quella scena incredibile, riconobbe il cavaliere del sogno e questo la sconvolse, cercava i capire, ma si convinse che non c’era niente da capire: era successo qualcosa di paranormale oltre i limiti della comprensione umana.
Quando arrivò Fabio con i soccorsi, Marina raccontò tutto, anche ciò che non aveva spiegazione:
 “Non so come dirtelo, Fabio, so che non mi crederai, per fortuna c’è Amir come testimone”, si rivolse al negretto ancora terrorizzato dalla brutta avventura:
“Hai visto anche tu il cavaliere, vero?”, chiese.
L’altro la guardò sconcertato:
 “No, non ho visto nulla, i guerriglieri sono andati via poco dopo, forse ci hanno ripensato”, affermò.
“Ho capito, sono una visionaria, ma non importa, io so che sto dicendo la verità”, ribatté delusa”.
Fabio l’abbracciò: “Io ti credo, forse c’è una spiegazione in ciò che mi hai raccontato …ma ora andiamocene via di qui”, concluse teneramente.
Se avessero saputo che Marina Autieri era l’ultima discendente di una nobile famiglia e che nel suo passato molto remoto c’era stato un cavaliere nero che l’aveva salvata dai briganti, forse avrebbero in parte capito che l’ eroe era tornato per salvare la sua principessa. Marina l’aveva visto nella macchina del tempo.
                                                                                                                                   FINE
 
                                                                                                                            
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

domenica 8 gennaio 2017

TI AMO COSI' COME SEI


 

 

 



Quel giorno c’era riunione di famiglia, non c’era un motivo preciso, ma ogni tanto i De Gennaro sentivano il bisogno di ritrovarsi da Salvatore per discutere di qualsiasi cosa inerente il loro gruppo familiare. C’erano i nonni, gli zii Teresa e Rocco, con i figli pestiferi, il cugino avvocato, e …Pelucco, l’amatissimo bassotto che di solito occupava la poltrona più comoda del salotto.

Monica spinse la porta d’ingresso e avanzò cautamente lungo il corridoio, Nicolò la seguiva; sorridenti si presentarono sulla soglia del soggiorno: “Ciao a tutti!”, disse lei. “ Buongiorno…”, farfugliò il ragazzo.

“Lui è Nicolò”, annunciò Monica.

Gli occhi di tutti si puntarono sulla coppia, una specie di gelo invase l’aria: osservavano in silenzio il ragazzo entrato con Monica.
Nicolò indossava jeans strappati e maglietta stinta, i capelli erano lunghi e arruffati, stretti dietro, a coda di cavallo; un piercing sulla narice destra e tre per ciascun lobo delle orecchie davano il tocco finale al suo aspetto bizzarro.. A prima vista sembrava uno zingaro, anche per la pelle scura e gli occhi neri, grandi e penetranti.

“Beh…vado in camera mia…”disse delusa Monica, visto il risultato della sua entrata.

“Va bene…”, brontolò papà, “…lascia la porta aperta”, aggiunse dopo un secondo.

Appena i due se ne furono andati, nonna Concetta si rivolse al figlio:

“Tu permetti a Monica di frequentare certa gente?”, l’apostrofò severa.

“Ma…è la prima volta che lo vedo”, cercò di calmarla lui.

“E’ semplicemente indecente che tua figlia lo porti in casa”, continuò l’anziana signora con la voce stridula, “credevo che mia nipote fosse più accorta”.

Lo sguardo di Salvatore si volse verso Linda, sua moglie, che aspettava paziente la domanda:

 “Tu non ne sai niente?”..

“No, non lo conosco…non è della compagnia di Monica”, rispose tranquilla la donna, “non ti preoccupare, nostra figlia sa scegliere le amicizie”.

“Certo che…”, intervenne la cognata, “ Monica è una ragazza con la testa sulle spalle, ma a volte non dipende da lei, le cattive amicizie possono portare un giovane alla rovina…”, concluse acida.

Linda la guardò di traverso:
“Fino a ora non è successo…cercheremo di essere più attenti”, affermò, facendo capire che di quell’argomento non ne voleva più parlare.

Nonna Concetta e nonno Rosario brontolarono qualcosa, poi si alzarono:
“Noi andiamo a casa”, dissero all’unisono.

Salvatore cercò di trattenerli, ma i due vecchi non ne vollero sapere, prima di varcare la soglia nonno sentenziò: “Ai miei tempi non si vedevano certi tipi per casa” borbottò.

 Il figlio allargò le braccia non sapendo cosa rispondere e poi  li accompagnò all’ascensore.

Poco dopo se ne andarono tutti. Salvatore e Linda si guardarono:

“Chissà quante ne diranno sul nostro conto”, disse sconsolato l’uomo, “però tu…avresti potuto avvisare Monica che c’erano i parenti, magari non si sarebbe presentata con quella specie di vagabondo”.

Linda non replicò, si ripromise di parlare alla figlia alla prima occasione.

 Cominciò a preoccuparsi, quando si accorse che Monica si chiudeva in camera per rispondere a telefonate e  messaggi che arrivavano sul suo cellulare. Senza contare che, quando era in casa, era perennemente occupata a digitare sulla tastiera del telefonino.

    Per un colpo insperato di fortuna riuscì a impossessarsi dell’aggeggio diabolico che Monica aveva sempre tra le mani: con grande senso di colpa si mise a frugare tra i  messaggi e trovò quello che cercava: “ ti aspetto al solito posto…ti voglio bene, Nicolò”. “. Una stretta le bloccò lo stomaco: allora era vero quello che pensava, c’era qualcosa più dell’amicizia fra i due ragazzi! 

Non appena le fu possibile cercò di parlare a sua figlia: la reazione fu abbastanza vivace.

“Sapevo di aver fatto uno sbaglio, quel giorno, non lo dovevo portare qui…so come la pensate, giudicate solo dalle apparenze”, disse Monica indispettita, “se avesse i capelli corti e indossasse pantaloni con la piega sarebbe certamente un bravo ragazzo…siete retrogradi!”. Finì la frase e si chiuse in camera sbattendo la porta.

“Monica…non fare la sciocca…volevo solo dirti di stare attenta!”, continuò la madre.

 La ragazza uscì, aveva gli occhi rossi:

 “Fra sei mesi compirò diciotto anni e sarò libera di fare quello che mi pare, me ne andrò a vivere da sola…”, minacciò diventando pallida.

Linda rimase senza parole, non volle continuare quella discussione che stava degenerando in litigio, non voleva ancora parlarne al marito per non suscitare il suo intervento che sarebbe stato, lo sapeva, molto poco diplomatico: per Salvatore la figlia avrebbe dovuto vivere sotto una campana di vetro…. Però, il pensiero che Monica frequentasse quel tale non la faceva dormire…durante una notte insonne decise di chiedere qualcosa di più alle sue amiche.

“Non è della nostra compagnia”, disse evasivamente Claudia, “lo conosciamo poco, lo vediamo solo quando è con Monica”.

“Sai se studia, se lavora, da dove viene?”, insistette Linda.

“Credo che studi, ma non so dove…so che vanno tutte le sere a trovare un amico di Nicolò”, rispose ancora la ragazza.

Che ci andranno a fare? Si chiese Linda…vedeva un orizzonte nero per sua figlia, trascinata a frequentare ambienti poco raccomandabili per amore di quel tale. Il suo cuore di madre era angosciato, non sapeva come proteggere la sua bambina, anche perché dal giorno in cui avevano avuto quello scontro, Monica, in casa non parlava quasi più. Si limitava a consumare i pasti in silenzio, poi si chiudeva nella sua stanza e accendeva lo stereo. Suo padre non sapeva e credeva che la bimba fosse preoccupata per altri motivi: problemi a scuola per le interrogazioni o qualcosa d’altro che lui non poteva capire, sono così strani i giovani d’oggi…

“Cosa c’è che non va?”, chiese un giorno a tavola, mentre Monica stava schiacciando pigramente con la forchetta il purè che non si decideva a ingoiare.

“No…va tutto benissimo”, rispose lei lanciando un’occhiata significativa alla madre che aveva avuto un sussulto.

L’atmosfera pesante non accennava a diminuire e Monica continuava a ricevere le telefonate di Nicolò.

Linda, sempre più preoccupata, richiamò Claudia, l’amica della figlia:
“Ti chiedo scusa, ma solo tu mi puoi aiutare”, cominciò. “ sai dove abita quel tale da cui vanno tutte le sere Monica e Nicolò?”, domandò titubante aspettandosi una risposta negativa.. Invece Claudia si prestò volentieri a spifferare quello che sapeva: le diede l’indirizzo e le disse anche l’orario in cui i due ragazzi vi si recavano.

Linda non avrebbe mai fatto una cosa simile, ma spinta dall’amore materno si appostò nei pressi di un edificio delle case popolari all'estrema periferia della città; un quartiere povero e in degrado. Mentre aspettava si guardava intorno e il cuore si stringeva: povera figliola dov’era andata a finire!

Aspettò per quasi mezz’ora senza risultato, stava già per andarsene quando vide un motorino arrivare a tutta velocità. Monica e Nicolò scesero e posteggiarono davanti a un portone.

 Entrarono e subito Linda cercò di seguirli, ma i ragazzi si chiusero la porta dietro di loro. La donna rimase a guardare in su, sperando di individuare qualche particolare, una figura alla finestra o qualsiasi cosa che le facesse capire in che appartamento fossero andati. Non riuscendo nel suo intento, decise di tornare alla sua vettura posteggiata in modo da poter tenere d’occhio il portone: “Non me ne vado finché non escono. Voglio vederli in faccia e sapere cosa hanno fatto là dentro”, si disse furibonda, “tanto so che non tarderanno molto, Monica torna sempre per l’ora di cena”.

 Con pazienza rimase in osservazione, non passò molto tempo, forse un quarto d’ora che il portone si aprì. Quello che vide la lasciò di stucco: Nicolò spingeva una carrozzella per invalidi su cui c’era un ragazzo di circa vent’anni. Monica teneva aperta la porta per farli passare, ridevano e scherzavano fra loro. I tre si diressero verso i giardinetti vicini e si fermarono a prendere un gelato. La sorpresa colse Linda come un colpo di fulmine, con gli occhi sgranati osservava la scena , i due giovani stavano portavano a passeggio un ragazzo che non poteva camminare…Era colpita, ma nello stesso tempo sollevata, sua figlia non l’aveva delusa.  Linda ripartì con un groppo alla gola, altro che droga o situazioni a rischio… Monica e Nicolò andavano lì tutte le sere per aiutare un compagno più sfortunato. Quando Monica rientrò, quella sera, Linda cercò di parlarle, non poteva dirle che era arrivata a spiarla, ma, dopo ciò che aveva visto voleva appianare i contrasti, e dirle che aveva fiducia in lei. Ma non poté fare niente di tutto questo perché la ragazza si chiuse in camera a studiare.

 Il giorno dopo, mentre nonna Concetta stava pulendo i vetri, un’improvvisa vertigine la costrinse a fermarsi, si mise una mano sulla fronte e scese cautamente dalla scala.

“Rosario, non mi sento bene”, mormorò buttandosi sul letto.

 Nonno Rosario, spaventatissimo, chiamò subito l’ambulanza:

“Venite subito…mia moglie sta male!”, gridò al colmo dell’agitazione, non sapeva più cosa fare…andava alla finestra e tornava da Concetta, i minuti gli sembravano secoli….Finalmente il soccorso arrivò: un medico e due giovani volontari si presentarono alla porta.

“Venite…venite…”, l’anziano signore li accompagnò dalla moglie e rimase ad aspettare, tormentandosi la mani, sempre più in preda all’ansia.

Intanto Concetta si era ripresa e si prestava di malavoglia a farsi visitare brontolando:
“Sto bene…, lasciatemi stare”.

“Non è niente, signora….stia tranquilla, solo un calo di pressione”, stava dicendo il dottore mentre la nonna, improvvisamente ammutolita, osservava il giovanotto che era dietro di lui.

“Tu non sei Nicolò, l’amico di Monica?”; chiese squadrandolo bene: stessi orecchini e stessa chioma incolta, stessi occhi profondi, non poteva sbagliare.

“Sì”, rispose lui sorpreso.

 “ Io sono la nonna di Monica, ricordi" ? …come mai sei qui?”, chiese ancora curiosa la donna puntandogli addosso gli occhietti furbi.

“Faccio volontariato, sono iscritto a medicina, così comincio a fare pratica”, rispose il ragazzo confuso.

Il medico stava scrivendo una ricetta e Concetta si alzò.

“Mi sento molto meglio…”, disse facendo qualche passo per la stanza; poi si avvicinò a Nicolò e gli chiese sottovoce:
" Sei un bravo ragazzo, perché ti conci in questo modo?”, il gesto eloquente della mano indicava la chioma e i piercing.

Lui sorrise: “E’ un gioco, così mi sento meglio… avrò tempo di rasarmi e mettere il doppiopetto quando sarò medico, spero presto”.

Il dottore se ne andò raccomandando a Concetta di non salire sulle scale, non aveva più l’età per fare certe cose ma, prima che i due ragazzi lo seguissero la nonna si rivolse di nuovo a Nicolò:
“Che ne diresti di venire con Monica a prendere un caffè?”, domandò civettuola.

“D’accordo, quando vuole”, rispose lui strizzandole un occhio.

 Appena se ne furono andati nonna Concetta telefonò a Linda, chiacchierarono per molto tempo poi l’anziana signora finì la conversazione dicendo: “A volte le apparenze ingannano, lo dirò anche a mio figlio”.

Monica, sul sellino della moto, abbracciata a Nicolò stava urlando qualcosa che lui non capiva:
“Non sento!”, gridò lui, “me lo dici dopo…”.

 Con i capelli scompigliati dalla corsa e le guance arrossate, Monica era più carina del solito, gli occhi le brillavano per la gioia. Scese dalla moto e si avvicinò al suo ragazzo. “Cosa mi stavi dicendo?”, chiese Nicolò.

“Ha detto la mamma se vieni a pranzo da noi, domani…”, rispose lei in fretta.

Un sorrisino gli stirò l’angolo della bocca:
“ Sei sicura di quello che dici? Vado bene così?”, disse Nicolò indicando l’abbigliamento che al solito, non era del tutto formale.

“Per me sei perfetto, io ti amo come sei…ma forse sarebbe meglio se indossassi dei jeans senza strappi…sai, mio padre non capisce certe cose”, mormorò timidamente Monica. “Ah…dimenticavo, anche quel coso sul naso …”.

“Non capisco ma mi adeguo…per amor tuo”, esclamò lui stringendola fra le braccia, “però, dopo, andremo a prendere il caffè da nonna Concetta, così vedo come sta. E’ tanto simpatica!”.

Da quel giorno Nicolò entrò a far parte della famiglia De Gennaro…e guai a chi parlava male di lui!

 

FINE

 

 

   

 

                       

domenica 1 gennaio 2017

FRESCO AMORE DI GIOVENTU'


 

 
 
“Sono in ritardo!…Ciao mamma, ci vediamo a pranzo”, esclamò Giorgia afferrando lo zaino. Percorse il lungo corridoio e  si fermò un attimo davanti allo specchio:
“Questa mattina sono un orrore”, brontolò lisciandosi i fianchi rotondi e passandosi una mano sul viso punteggiato da foruncoletti come un prato fiorito. “domani comincio la dieta”, si disse sapendo di mentire.
Cercò di aggiustarsi i capelli crespi mormorando sconsolata: “Non c’è proprio niente da fare”, e infine si precipitò lungo le scale. Era una ragazzina simpatica, non si poteva dire che fosse bella con quella figura un po’ tozza e il naso pronunciato , però gli occhi neri vivaci rischiaravano il volto e il suo sorriso era contagioso. Per il suo carattere allegro era sempre circondata dai ragazzi della classe che la trattavano come una di loro: un maschiaccio al quale si poteva dire tutto.
Quella mattina entrò trafelata in aula, la prof di filosofia la guardò di traverso, ma non disse nulla. C’era la verifica e aveva già distribuito le fotocopie con le domande.
“Tieni”,  brontolò l’insegnante allungandole il foglio. Giorgia si sedette al suo banco.
“… poi  ti passo i bigliettini”, sussurrò Fabio nel banco dietro. Lei lo ringraziò con uno sguardo d’intesa.
Di solito si aiutavano passandosi gli appunti scaricati da Internet  stampati in un carattere microscopico per consultarli senza farsi accorgere dall’insegnante.
Giorgia era attratta da Fabio, le piaceva perché era un ragazzo dolce ma sicuro di sé e, nonostante avesse appena compiuto diciassette anni,  se la sapeva cavare in ogni circostanza…senza contare che era anche uno dei più carini della classe. Però non aveva speranza perché lui non aveva occhi che per Monica, una biondina slavata che era l’esatto suo contrario: alta, magra, bella ma senza sprint.
“Sei riuscita a copiare?”, le chiese Fabio durante l’intervallo mentre inseriva il gettone nella macchinetta delle merendine.
“Non tutto…avevo la prof che non smetteva di osservarmi…”, rispose lei . Intanto il ragazzo si era avvicinato a Monica che stava aggiustandosi i lunghi capelli che le cadevano fin sotto le spalle.
“Vieni con noi stasera ai Go-kart?”, le chiese invitante.
La ragazza si volse verso l’amica: “Tu ci vai?”, domandò.
Giorgia non fece tempo a rispondere, Fabio si intromise:
“Certo che ci viene…”, disse guardandola con intenzione e dandole uno strattone senza farsi accorgere.
Giorgia gli lanciò un’occhiata di fuoco ma assentì: “Va bene…a che ora?”, chiese restituendogli la gomitata.
“Verso le nove dopo cena?”; insisté il ragazzo rivolto alla biondina.
“Non so se mi fanno uscire…però può darsi se dico che vado fuori con Giorgia”.
“Dai…non ti fare pregare, vieni, ci divertiremo”, continuò Fabio; il suo sguardo era quasi implorante, Giorgia capì che doveva dargli una mano:
“OK…verrò a casa tua ad ottenere il permesso…diremo che andiamo da Michela a sentire dei dischi”, si lasciò sfuggire. Non avrebbe voluto dirlo, ma ormai era fatta, gli occhi di Fabio la stavano  ringraziando.
“Però invitiamo anche gli altri…così ci divertiremo di più”, aggiunse lei. Non se la sentiva di portare il moccolo tutta la sera…
Quando la compagnia arrivò sul posto si precipitarono tutti a indossare la tuta e il casco come da regolamento…meno Monica che si rifiutò:
“Mi dispiace ma io non salgo, rimango a guardarvi…andate pure”, affermò con la faccia schifata.
“Come mai?”, chiese Fabio deluso.
“Non ho intenzione di mettermi in testa quel coso”, disse accennando al copricapo, “…ho appena fatto la messa in piega”, aggiunse sedendo annoiata sulla gradinata .
Tutti i ragazzi fecero una risata e la mollarono ai bordi della pista, meno Fabio che aveva fatto di tutto per  portarsela dietro, era rimasto male, non credeva che Monica fosse così schizzinosa…
Giorgia salì sulla vetturetta e si accinse a partire, non era la prima volta che frequentava il circuito, i ragazzi si divertivano con lei perché  andava come una freccia e la inseguivano spronati dall’ebbrezza della velocità.
 La ragazzina pigiava sull’acceleratore, dentro di sé  gongolava: su quella pista c’era lei e non Monica! Ad una curva si girò per vedere chi c’era dietro, una mossa sbagliata e il go-kart finì contro i bordi con un gran botto … gli addetti si precipitarono ad aiutarla, Fabio si fermò e corse verso di lei…aveva il viso congestionato per lo spavento.
  “Ti sei fatta male?”; chiese allarmato.
Giorgia si tastò dappertutto: “Credo di essere ancora intera”, disse con un sorriso forzato.
Lui le afferrò le mani e si accorse  che tremavano:
 “Dai, vieni…”, l’aiutò ad alzarsi e le cinse le spalle. Lei si lasciò portare, stava così bene fra le sue braccia che anche la botta che aveva preso era passata in secondo piano. Lei piccolina e rotondetta, lui alto e dinoccolato formavano una coppia quasi buffa…ma tenerissima.
“Si può sapere cosa hai combinato?…non ti era mai successo”, continuò lui stringendola.
“Ero distratta…stai tranquillo, non capiterà più”, si affrettò a rispondere, non poteva certo dirgli che era semplicemente nervosa per la presenza di Monica.
Fabio le tolse il casco con delicatezza: “Sei sicura di stare bene?”, nella sua voce, oltre alla preoccupazione c’era anche della tenerezza.   “Non posso perdere un avversario come te, con chi gareggio la prossima volta?….se l’unica a tenermi testa…”, concluse passandole una mano sui capelli scomposti. Giorgia gli sorrise e non rispose subito,
“Vado a sedermi vicino a Monica…tu continua pure”, disse infine .
Il ragazzo si infilò nel go-kart precipitosamente, come se volesse uscire da qualcosa che lo emozionava.
Nei giorni seguenti non successe nulla di particolare, Giorgia pensava alla sera precedente, era sicura che Fabio l’aveva guardata con occhi diversi da quelli del compagno di classe, dell’amico con il quale scherzava… ma dovette ricredersi perché una sera lui le telefonò:
“Sono uscito con Monica”, le disse a bruciapelo.
Una punta di spillo colpì il petto di Giorgia, ma cercò di non farci caso.
“Ah sì?…ce l’hai fatta finalmente”, esclamò con finta complicità, in realtà avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non ascoltare i particolari dell’evento straordinario. Purtroppo dovette subire il racconto della serata, nei minimi dettagli:
“…abbiamo fatto tardi poi l’ho accompagnata a casa e l’ho baciata…”, a questo punto lo spillo era diventato un pugnale conficcato nel petto.
“… tornando ho incontrato la mamma di Giacomo Montanari, sai quella signora un po’ pettegola?…mi ha chiesto cosa facevo in giro a quell’ora…avrei dovuto risponderle male, ma ero contento e non volevo sciuparmi la serata”, concluse il ragazzo. Giorgia non vedeva l’ora di interrompere quella conversazione che la faceva stare male….
Infatti chiuse il telefono con rabbia: “per chi mi ha presa?…prima mi fa gli occhi dolci poi mi viene a raccontare la serata con quella antipatica di Monica”, sbottò nervosa
. Andò a letto e cominciò a girarsi da una parte all’altra.
La mattina dopo l’aspettava una spiacevole sorpresa: gli studenti erano tutti fuori dal liceo, la polizia impediva l’accesso alla scuola . I ragazzi confabulavano fra loro:
“Cosa è successo?”; chiese Giorgia agli amici.
“Questa notte sono entrati e hanno fatto un macello…hanno rotto i vetri, sono entrati nelle aule e sfasciato i banchi e le cattedre”, rispose uno di loro, “Ora stanno valutando i danni e i poliziotti sono qui per un’inchiesta”.
I ragazzi osservavano costernati i vetri in frantumi e immaginavano cosa fosse successo all’interno; nessuno osava commentare…dopo molto tempo il bidello invitò gli studenti a raggiungere l'aula delle assemblee. In silenzio entrarono  guardandosi intorno increduli: i muri imbrattati, banchi e cattedre sfasciati, bagni inagibili…i vandali notturni praticamente  avevano distrutto la scuola!
Il preside li aspettava, dal suo viso si poteva prevedere che da lì a qualche minuto sarebbe scoppiata la bufera, infatti parlò duramente, nella sua voce c’era rabbia e dolore:
“Non avrei mai creduto di vivere questo momento, un tale atto di delinquenza è inqualificabile…mi piacerebbe illudermi che nessuno di voi sia coinvolto in questa brutta faccenda…non voglio pensare che i miei ragazzi si siano comportati in un modo incivile sfogando la delusione di un brutto voto su questa scuola che ha una tradizione di serietà e che ha formato tanti giovani.  Forse anche i vostri padri hanno frequentato questo liceo…”, qui l’uomo si interruppe visibilmente emozionato, nell’aula c’era un silenzio sbigottito.
Passandosi una mano sugli occhi come per cancellare la visione della devastazione che aveva davanti, il preside riprese:
“Ci sarà un’inchiesta della polizia e nei prossimi giorni ciascuno di voi si faccia un esame di coscienza, chi è al corrente di qualche particolare che possa aiutare ad individuare i colpevoli venga da me…ovviamente non mi aspetto che facciate la spia, ma questo sarebbe soltanto un atto di civiltà nei confronti di tutti…ora devo rimandarvi a casa, sarete avvisati quando riprenderanno le lezioni”, concluse amareggiato.
Scavalcando i pezzi di legno dei banchi distrutti i ragazzi lasciarono l’aula senza fiatare. Si riunirono fuori a commentare, naturalmente in ogni scuola c’è la pecora nera e tutti conoscevano quel gruppetto di prepotenti che disturbava spesso, ma nessuno di  loro era stato visto, perciò avrebbero potuto  farla franca.
La sera dopo Fabio fece la solita telefonata all’amica Giorgia:
“Devo vederti”, esordì senza preamboli: dal tono della voce la ragazza capì che c’era qualcosa che non andava.
“Va bene…ti aspetto a casa mia”, rispose pronta.
Dopo qualche minuto Fabio suonò alla porta di Giorgia:
“Andiamo in camera tua…”, disse affannato.
“Si può sapere cosa è successo?”, chiese lei allarmata.
Il ragazzo si sedette sul letto:
“Ieri sera il preside ha telefonato a mia madre dicendo che voleva vederla…”.
“Per che cosa?”, l’interruppe Giorgia.
“Aspetta…è una cosa incredibile…ti ricordi che ti avevo detto di aver incontrato quella pettegola della madre di Montanari…ebbene, siccome eravamo nei pressi della scuola ed era quasi mezzanotte, lei è andata a dirlo in presidenza, così adesso si sospetta di me…”, concluse Fabio con un tremito nella voce.
“Che problema c’è?…tu vai a dire che eri fuori con Monica e lei ovviamente deve confermare, sono certa che ti crederanno… vuoi che parli io con lei?” domandò Giorgia
“Ti ringrazio, sei un’amica…dovrei farlo io, ma sono troppo sconvolto…”, riprese lui abbracciandola.
 Lei diventò rossa:
“Va bene… poi ti telefono”, rispose Giorgia , in quel momento avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui.
Con Monica purtroppo trovò molte difficoltà :
“Mi dispiace…i miei genitori mi hanno detto di tenermi fuori da questa storia…non me la sento di andare dal preside…dì a Fabio che lo aiuterei volentieri, ma andrei contro la volontà della mia famiglia…”, disse abbassando lo sguardo.
“Io posso anche capire, ma la tua coscienza non ti suggerisce niente? Se non gli dai una mano si metterà nei guai, sai come vanno queste storie, basta una parola di troppo e sei additato come colpevole senza esserlo..”, ribatté risentita Giorgia. Dallo sguardo freddo che la compagna le lanciò, Giorgia capì che non c’era nulla da fare, non avrebbe mai aiutato Fabio, non voleva essere coinvolta….
La salutò a malapena e tornò a casa pensierosa , prima di telefonare all’amico e dargli la brutta notizia ci pensò molto: nella sua mente stava facendosi strada un pensiero…voleva presentarsi al preside e dirgli che lei era stata fuori con Fabio…era una bugia, ma chi poteva contestarla? Se questo poteva aiutarlo l’avrebbe fatto senza pensarci due volte.
Infatti, dopo aver preso questa decisione si sentì meglio: telefonò al ragazzo e gli disse del rifiuto di Monica e di ciò che voleva fare…“Sei pazza?”, esclamò lui, “ti vuoi mettere nelle grane?”.
 “Quali grane…farei tutto per aiutarti…”, rispose lei  precipitosamente.
 “ Devo dire che sei straordinaria e che non potrei fare a meno di te…”, disse il ragazzo tutto d’un fiato.
Dall’altro capo della comunicazione il silenzio accolse queste parole, Giorgia sentì il cuore battere forte:
 “Come amica…naturalmente”, sussurrò infine,
“Qualcosa di più…”, rispose lui sottovoce.-
“Adesso terminiamo qui…altrimenti non riesco più a pensare…”, scherzò Giorgia.
“Promettimi che non farai quello che hai detto”, insistette Fabio, ma la ragazzina aveva già terminato la comunicazione.
Uscì determinata a portare a termine il suo proposito, quando si trovò davanti al cancello del Liceo dovette farsi forza per entrare, chiese di essere ricevuta in presidenza . Il professor Damiani l’invitò ad entrare:
“Siediti e dimmi cosa posso fare per te…”, l’incitò per sciogliere la tensione che sentiva aleggiare intorno alla ragazzina. Questa aveva il viso in fiamme e gli occhi lucidi:
“Devo parlarle, signor preside…”, cominciò.
Le parole le uscivano a fatica, ma riuscì a dire che, anche se era stato visto nei pressi del liceo quella notte, Fabio non c’entrava perché era fuori con lei…Alla fine di tutto il discorso era congestionata, il professor Damiani la stava guardando benevolmente.
“Ti ringrazio…ma ormai non è più necessario…i colpevoli sono stati individuati, anzi si sono presentati spontaneamente…comunque hai fatto il tuo dovere”, concluse il preside dandole un buffetto sulla guancia.
Giorgia si precipitò fuori, ma mentre stava scendendo i gradini quasi si scontrò con Fabio:
“ Li hanno presi!  è tutto finito!”, esclamò buttandosi nelle sue braccia.
“Lo so…ma tu non dovevi esporti, perché l’hai fatto?”, chiese lui.
“Perché ti amo”, mormorò lei.
Scesero i gradini abbracciati, incontrarono un compagno di classe che li osservò stupito:
“State insieme?”, chiese candido.
“Sì…”, esclamarono tutti e due guardandosi negli occhi.
                                                                                                                                                                             FINE