L’uomo
scendeva i gradini con passo leggero; arrivato alla seconda rampa sentì una
voce di donna provenire dal pianerottolo sottostante:
«Dove sei stato fino a quest’ora ? E’ l’una di
notte …ti ho aspettato tutta la giornata». L’uomo tentò di fermarsi, ma ormai
l’ombra della sua figura era ben visibile contro i finestroni delle scale e
decise di proseguire. La signorina Clotilde, infagottata in una pesante
vestaglia azzurra era china ad accarezzare un gatto grigio. Al rumore dei passi
alzò la testa, ma l’abbassò subito per continuare a coccolare il micio che
miagolava di piacere.
«Vieni dentro, vagabondo! Lo sai che sono sola
e ho paura, sono stufa di alzarmi per venirti ad aprire...la prossima volta ti
giuro che stai fuori!».
L’uomo attraversò velocemente i pochi metri davanti
alla donna e riprese a scendere precipitosamente le scale. La signorina
Clotilde restò sulla soglia sopra pensiero e, quando sentì il tonfo del portone
che si chiudeva, rientrò nel suo appartamento con il gatto in braccio.
«Strano», pensò, «chissà chi era a quest’ora…».
Sopra di lei abitava il signor Vincenzo, un vecchio antiquario che viveva
solo e non riceveva mai nessuno; se ne stava rintanato nel suo abbaino e usciva
raramente. «Mah! In fin dei conti che cosa mi interessa», si disse alzando le
spalle. Con calma depose la bestiola per terra, chiuse la porta a chiave e
ritornò a piccoli passi in camera. Si infilò sotto le coperte per riprendere il
sonno interrotto mentre il gatto con un balzo saltava sul letto e si
accoccolava beatamente ai suoi piedi.
La signorina Clotilde era una zitella sui sessant’anni
che viveva in quella casa da quando era nata, le mura di quel palazzo le erano
così familiari che non avrebbe potuto vivere in nessun altro posto. Alla morte
dei suoi genitori era rimasta sola; suo nipote Flavio, agente di pubblica
sicurezza, si fermava da lei di tanto in tanto quando era in città per servizio.
Per il resto la sua vita scorreva tranquilla, la sua vera compagnia era il
gattino; ma qualche volta Pallino la deludeva, spariva per intere giornate e se
ne andava per i fatti suoi, ritornava grattando la porta nel cuore della notte
sfinito dalle scorribande sui tetti, come quella volta.
«Devo stare più
attenta a non farlo uscire», questo fu l’ultimo pensiero dell’anziana signorina
prima di addormentarsi beatamente.
L’uomo inghiottito dal buio della strada si allontanò
velocemente dal portone, girò l’angolo e si mise a correre. A quell’ora in
quella via angusta di periferia non passava nessuno, la notte era chiara e
l’aria pungente. Il respiro dell’uomo si faceva sempre più affannoso. Si fermò
appoggiandosi al muro per riprendere fiato, poi continuò la sua fuga. Arrivò
stremato davanti a una costruzione bassa, una specie di magazzino abbandonato,
spinse la porta di ferro ed entrò. Un tavolo, qualche sedia e una branda
costituivano l’arredamento dello squallido locale. L’uomo si buttò sul
materasso e chiuse gli occhi: le immagini del vecchio disteso per terra con la
testa sanguinante ritornavano insistenti ogni volta che tentava di scacciarle.
Si mise le mani davanti al viso in un gesto di disperazione: «Questa volta l’ho
fatta grossa!», pensò. Era stato sempre una ‘testa calda’; gioco, donne,
cattive compagnie l’avevano trasformato in quello che si dice un cattivo
soggetto. Ma non era del tutto colpa sua: era cresciuto sui marciapiedi di una
grande città, in un quartiere dove l’odore di povertà trasudava dai muri
scrostati delle case, dalla sporcizia accumulata sulle strade, dai vestiti
della gente che l’abitava. Fin da ragazzo era stato costretto ad arrangiarsi
per racimolare qualche soldo. Molte volte l’avevano pizzicato e messo in
galera, la sua faccia era conosciuta negli archivi della questura, ma fino a
quel momento si era trattato solo di furti, scippi, vagabondaggio. Solo
quando aveva conosciuto Tiziana aveva
messo la testa a posto: quella biondina, con grandi occhi trasparenti , era
riuscita ad addormentare la rabbia che aveva dentro, ma quel periodo era durato
poco, solo qualche mese: una breve parentesi nella sua vita tormentata, poi la
sua indole insofferente ad ogni forma di legame l’aveva sopraffatto e si era
ributtato giù per la china sapendo di dover arrivare fino in fondo. E ora c’era
arrivato. Aveva ammazzato un uomo per rubargli del denaro; altre volte aveva rubato, ma non era
mai arrivato ad uccidere.
Si accorse che il rimorso si faceva strada dentro di
lui e non voleva cedere: «Era ora che morisse», borbottò cinicamente , «tanto
era vecchio e solo, tutti quei soldi a chi li avrebbe lasciati? Meglio che li
abbia presi io!». Si alzò a sedere e cavò da una borsa i pacchetti di
banconote, ben pressati. Erano tanti, si mise a contarli con gli occhi che gli
luccicavano: la visione del vecchio steso sul pavimento era svanita, il denaro
aveva cancellato tutto!
Quella mattina era andato, come faceva quando era al
verde, in una banca per osservare chi prelevava somme notevoli, sceglieva le
vittime secondo una sua logica, di solito erano persone che lui giudicava
deboli: prevalentemente donne e anziani che ritiravano la pensione, o qualche
giovane ragazza che abbordava con qualche complimento. Quel vecchietto che
incassava un bel malloppo aveva attirato la sua attenzione: il cassiere aveva
posto davanti a lui tanti pacchetti di banconote che l’ometto aveva riposto con
cura in un borsone di pelle. L’aveva seguito cercando il momento opportuno per
scipparlo, ma per varie ragioni non c’era mai riuscito: quando tentava di
strappargli la borsa c’era un imprevisto. Sempre inseguendo la sua preda era
arrivato fino a quel maledetto portone, poi fin sulle scale. Ma
decisamente quello non era un giorno
fortunato per fare ciò che aveva in testa: nel palazzo troppa gente andava su e
giù, qualcuno si sposava e le scale erano troppo frequentate. Aveva sentito una
donna chiedere alludendo al vecchio che si accingeva a salire i gradini con la
testa bassa cercando di defilarsi senza
farsi notare: «Chi è quello lì che non saluta nessuno?»
«Ah, è il signor Vincenzo, dell’ultimo piano, poveretto, vive solo, è un po’ scorbutico, ma
è una brava persona», aveva risposto la portinaia.
Quelle parole
avevano fatto scattare nella sua mente un’idea; spronato dal pensiero di
mettere le mani su tutto quel denaro aveva deciso di agire la notte stessa. Ci
aveva pensato tutto il giorno, non
riusciva a togliersi dalla mente quel mucchio di soldi che avrebbero potuto
essere suoi, come un automa si era trovato in quel palazzo quando tutto era
silenzio per tacitare la voglia che lo possedeva come una febbre. Per uno come
lui abituato agli scassi, aprire la porta di quell’abbaino era stato un gioco.
Il vecchio non gli faceva paura… l’avrebbe convinto con i suoi metodi a
mollare. Ma non aveva fatto i conti con l’imprevedibile vitalità del suo
avversario. Quante volte lo minacciò inutilmente? Non se lo ricordava più, aveva ben chiaro però il momento in cui il vecchio cercò di
colpirlo con un antico pugnale. Il poveretto non aveva fatto in tempo ad alzare
il braccio che si era trovato per terra con la testa spaccata da un fermacarte
di marmo nero.
Preso dal
panico aveva freneticamente rovesciato i cassetti, sventrato i cuscini, cercato
dappertutto, finalmente aveva trovato i soldi nascosti in un cassetto segreto
di un vecchio trumeau. Aveva cacciato
tutto nella borsa e si era precipitato
per le scale.
La
visione delle banconote sparse sul letto gli dava un’euforia mai provata: «Bel
colpo! questa volta mi metto a posto per un bel po’». Si fregò le mani e cominciò a fantasticare: si
guardò intorno: via di qui, subito! In un bell’albergo, magari sulla Costa
Azzurra a fare il signore. Il miagolio di un
gatto sul tetto del capannone gli evocò improvvisamente la visione della
donna che accarezzava il piccolo soriano e questo pensiero lo gelò. «Accidenti,
quella strega mi ha visto! Se la polizia le mostra le mie foto sono fritto! Mi
riconoscerà certamente, devo squagliarmela subito prima che trovino il
cadavere».
Infilò un
giubbotto, afferrò la borsa e si precipitò fuori. Le sue lunghe gambe si
muovevano frenetiche, quasi correndo ripassò davanti al portone dal quale era
uscito poco prima. Nessuna emozione era dentro di lui, pensava freddamente a
come togliersi dai guai. La sua mente lavorava come un computer in cerca della
soluzione, l’aria fresca della notte l’aveva rinvigorito. La via più facile da
seguire era quella di prendere il primo treno che passava dalla stazione e
sparire, allontanarsi il più possibile dalla città. Un gatto nero gli attraversò
la strada: «Sempre gatti fra i piedi!», esclamò. Gli allungò un calcio, il
poveretto fuggì miagolando di dolore e sparì dietro un bidone della spazzatura.
In quell’istante nel cervello dell’uomo scattò qualcosa di perverso. Si girò di
colpo e tornò sui suoi passi. Poco dopo si ritrovò davanti alla casa del
delitto. Con gesto abituale trasse di tasca un mazzo di chiavi, ne cercò una e
aprì il portone. L’atrio era immerso nel buio, salì guardingo le scale
illuminate da una luce fioca. Stava attento ad ogni più piccolo rumore pronto a
fuggire al primo allarme. Arrivò indisturbato davanti alla porta della
signorina Clotilde, con occhio esperto valutò la serratura e un sorrisino
increspò le sue labbra. Ricordò le parole: «Lo sai che sono sola ed ho paura»,
aveva detto la donna al gatto…«Bene», mormorò l’uomo, «adesso ci penso
io». Appoggiò per terra la borsa con i
soldi e, prima di mettersi all’opera, lanciò uno sguardo di sopra, verso le
scale che salivano all’abbaino, scrollò le spalle e piano piano cercò di aprire
la porta che aveva davanti. Per un ladro professionista come lui fu una
questione di minuti, infatti poco dopo docilmente l’uscio si aprì.
Si trovò
dentro, al buio; strizzò gli occhi per cercare uno spiraglio di luce. La casa
era immersa nel silenzio, stava per muoversi a tentoni ma… il miagolio del
gatto che aveva sentito entrare un estraneo, lo bloccò.
«Che succede Pallino?». La voce assonnata della
signorina Clotilde lo guidò nella stanza vicina. Ormai i suoi occhi si erano
abituati all’oscurità e scorse, nel letto in mezzo alla stanza, la figura della
donna coricata.
«Chi è?», chiese la signorina Clotilde con un filo di
voce, «Sei tu Flavio?»
L’uomo con mossa fulminea le fu addosso. «Zitta!…ti farò tacere per sempre così non
andrai a spifferare che mi hai visto stanotte…meglio essere prudenti». Le mise
una mano sulla bocca mentre la poveretta emetteva un mugolio di terrore. Il suo
aggressore prese il cuscino e lo
premette con forza sul viso della donna, ma il gatto con un balzo gli saltò sul
collo. Imprecando l’uomo cercò di difendersi dai graffi della bestia infuriata,
alzò le mani e perse l’equilibrio. Si aggrappò al comodino rovesciandolo, il
rumore ingigantito dal silenzio echeggiò nella stanza. Stava per cadere
all’indietro quando sentì la morsa di un braccio che lo afferrava..
«Cosa fai, mascalzone…cosa cerchi qua dentro?», disse
una voce concitata.
L’uomo si girò appena in tempo per ricevere un pugno
in pieno viso che lo stese sul pavimento.
Intanto la signorina Clotilde si era liberata del
cuscino e con voce piagnucolosa andava ripetendo: «Che succede? cosa mi hanno
fatto?». Aveva il viso pallido, le sue mani annaspavano nell’aria in un estremo
tentativo di difesa senza rendersi conto che ormai era salva.
Flavio, il nipote poliziotto le si avvicinò premuroso:
«Stai bene zia? meno male che c’era Pallino…e che io ero appena rientrato!», le
disse cercando di calmarla. «Ora stai tranquilla, è tutto finito». Ma l’anziana signorina continuava a piangere
sommessamente. L’uomo steso a terra stava riprendendo i sensi, approfittando
della momentanea disattenzione di Flavio, cercò di alzarsi per afferrare la
borsa sul pavimento, ma il poliziotto fu più svelto di lui.
«Ma…questa è la borsa del signor Vincenzo!» esclamò
sorpreso. L’aprì e : «è piena di soldi!!»
Quella
borsa era inconfondibile: di vecchio cuoio nero, un po’ rigonfia, con il manico
in ottone lavorato e una singolare serratura a forma di foglia di quercia.
Quante volte l’aveva vista in mano all’antiquario!
Prima
che l’uomo per terra si rialzasse, con un balzo gli fu sopra, l’ammanettò con
le mani dietro la schiena.
Con la punta del piede scostò la borsa: «Cosa
significa?», chiese.
L’altro chinò la testa senza rispondere. Flavio lo
prese per il mento e l’obbligò a guardarlo in viso:
«Cosa
hai fatto, disgraziato!». Nella sua voce c’era tanta rabbia, strinse i pugni
per trattenere l’impulso di picchiarlo, con uno spintone lo spinse fuori dalla
porta: «Adesso cammina, andiamo di sopra», gli intimò.
Intanto la signorina Clotilde, sempre più
confusa, abbracciava il gatto che si era
rifugiato nel letto spaventato da tutto quel trambusto. I due uomini salirono i gradini lentamente, la porta
dell’abbaino era aperta e il corpo senza vita del vecchio giaceva sul
pavimento, quasi davanti all’entrata.
Flavio soffocò un grido d’orrore.
«Sei stato tu!», gridò in faccia all’uomo che lo
fissava inebetito. Il poliziotto lo prese per le spalle e lo scrollò come un
sacco di stracci.
«Perché sei entrato in casa di mia zia? Volevi
uccidere anche lei…perché?»
Con la voce roca l’altro urlò: «Quella vecchia e il
suo stramaledetto gatto! Mi aveva visto…era sulle scale quando scendevo
dopo…», si interruppe e guardò il
cadavere ai suoi piedi.
«…dopo aver ammazzato questo poveretto». Concluse Fabio. Poi riprese con voce stanca:
«Questa volta hai fatto un passo falso, amico, mia zia
non poteva vederti perché…è cieca. Se tu non fossi tornato forse l’avresti
fatta franca»
Negli occhi dell’uomo passò un lampo di stupore, poi
scoppiò in una risata isterica. Flavio trasse di tasca il cellulare: «Venite a
prendere un assassino…», disse lentamente.
Ormai albeggiava, le grandi finestre delle scale erano
diventate trasparenti, l’uomo, seduto sui gradini aspettava che si compisse il
suo destino mentre il gatto, davanti a lui lo fissava con gli occhi verdi
socchiusi inarcando la schiena.
FINE