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martedì 20 gennaio 2015

HAI FATTO UN PASSO FALSO; AMICO!




L’uomo scendeva i gradini con passo leggero; arrivato alla seconda rampa sentì una voce di donna provenire dal pianerottolo sottostante:

 «Dove sei stato fino a quest’ora ? E’ l’una di notte …ti ho aspettato tutta la giornata». L’uomo tentò di fermarsi, ma ormai l’ombra della sua figura era ben visibile contro i finestroni delle scale e decise di proseguire. La signorina Clotilde, infagottata in una pesante vestaglia azzurra era china ad accarezzare un gatto grigio. Al rumore dei passi alzò la testa, ma l’abbassò subito per continuare a coccolare il micio che miagolava di piacere.

 «Vieni dentro, vagabondo! Lo sai che sono sola e ho paura, sono stufa di alzarmi per venirti ad aprire...la prossima volta ti giuro che stai fuori!».

L’uomo attraversò velocemente i pochi metri davanti alla donna e riprese a scendere precipitosamente le scale. La signorina Clotilde restò sulla soglia sopra pensiero e, quando sentì il tonfo del portone che si chiudeva, rientrò nel suo appartamento con il gatto in braccio. «Strano», pensò, «chissà chi era a quest’ora…».

Sopra di lei abitava il signor  Vincenzo, un vecchio antiquario che viveva solo e non riceveva mai nessuno; se ne stava rintanato nel suo abbaino e usciva raramente. «Mah! In fin dei conti che cosa mi interessa», si disse alzando le spalle. Con calma depose la bestiola per terra, chiuse la porta a chiave e ritornò a piccoli passi in camera. Si infilò sotto le coperte per riprendere il sonno interrotto mentre il gatto con un balzo saltava sul letto e si accoccolava beatamente ai suoi piedi.

La signorina Clotilde era una zitella sui sessant’anni che viveva in quella casa da quando era nata, le mura di quel palazzo le erano così familiari che non avrebbe potuto vivere in nessun altro posto. Alla morte dei suoi genitori era rimasta sola; suo nipote Flavio, agente di pubblica sicurezza, si fermava da lei di tanto in tanto quando era in città per servizio. Per il resto la sua vita scorreva tranquilla, la sua vera compagnia era il gattino; ma qualche volta Pallino la deludeva, spariva per intere giornate e se ne andava per i fatti suoi, ritornava grattando la porta nel cuore della notte sfinito dalle scorribande sui tetti, come quella volta.

 «Devo stare più attenta a non farlo uscire», questo fu l’ultimo pensiero dell’anziana signorina prima di addormentarsi beatamente.

L’uomo inghiottito dal buio della strada si allontanò velocemente dal portone, girò l’angolo e si mise a correre. A quell’ora in quella via angusta di periferia non passava nessuno, la notte era chiara e l’aria pungente. Il respiro dell’uomo si faceva sempre più affannoso. Si fermò appoggiandosi al muro per riprendere fiato, poi continuò la sua fuga. Arrivò stremato davanti a una costruzione bassa, una specie di magazzino abbandonato, spinse la porta di ferro ed entrò. Un tavolo, qualche sedia e una branda costituivano l’arredamento dello squallido locale. L’uomo si buttò sul materasso e chiuse gli occhi: le immagini del vecchio disteso per terra con la testa sanguinante ritornavano insistenti ogni volta che tentava di scacciarle. Si mise le mani davanti al viso in un gesto di disperazione: «Questa volta l’ho fatta grossa!», pensò. Era stato sempre una ‘testa calda’; gioco, donne, cattive compagnie l’avevano trasformato in quello che si dice un cattivo soggetto. Ma non era del tutto colpa sua: era cresciuto sui marciapiedi di una grande città, in un quartiere dove l’odore di povertà trasudava dai muri scrostati delle case, dalla sporcizia accumulata sulle strade, dai vestiti della gente che l’abitava. Fin da ragazzo era stato costretto ad arrangiarsi per racimolare qualche soldo. Molte volte l’avevano pizzicato e messo in galera, la sua faccia era conosciuta negli archivi della questura, ma fino a quel momento si era trattato solo di furti, scippi, vagabondaggio. Solo quando   aveva conosciuto Tiziana aveva messo la testa a posto: quella biondina, con grandi occhi trasparenti , era riuscita ad addormentare la rabbia che aveva dentro, ma quel periodo era durato poco, solo qualche mese: una breve parentesi nella sua vita tormentata, poi la sua indole insofferente ad ogni forma di legame l’aveva sopraffatto e si era ributtato giù per la china sapendo di dover arrivare fino in fondo. E ora c’era arrivato. Aveva ammazzato un uomo per rubargli del  denaro; altre volte aveva rubato, ma non era mai arrivato ad uccidere.

Si accorse che il rimorso si faceva strada dentro di lui e non voleva cedere: «Era ora che morisse», borbottò cinicamente , «tanto era vecchio e solo, tutti quei soldi a chi li avrebbe lasciati? Meglio che li abbia presi io!». Si alzò a sedere e cavò da una borsa i pacchetti di banconote, ben pressati. Erano tanti, si mise a contarli con gli occhi che gli luccicavano: la visione del vecchio steso sul pavimento era svanita, il denaro aveva cancellato tutto!

Quella mattina era andato, come faceva quando era al verde, in una banca per osservare chi prelevava somme notevoli, sceglieva le vittime secondo una sua logica, di solito erano persone che lui giudicava deboli: prevalentemente donne e anziani che ritiravano la pensione, o qualche giovane ragazza che abbordava con qualche complimento. Quel vecchietto che incassava un bel malloppo aveva attirato la sua attenzione: il cassiere aveva posto davanti a lui tanti pacchetti di banconote che l’ometto aveva riposto con cura in un borsone di pelle. L’aveva seguito cercando il momento opportuno per scipparlo, ma per varie ragioni non c’era mai riuscito: quando tentava di strappargli la borsa c’era un imprevisto. Sempre inseguendo la sua preda era arrivato fino a quel maledetto portone, poi fin sulle scale. Ma decisamente  quello non era un giorno fortunato per fare ciò che aveva in testa: nel palazzo troppa gente andava su e giù, qualcuno si sposava e le scale erano troppo frequentate. Aveva sentito una donna chiedere alludendo al vecchio che si accingeva a salire i gradini con la testa bassa cercando di defilarsi  senza farsi notare: «Chi è quello lì che non saluta nessuno?»

«Ah, è il signor Vincenzo, dell’ultimo piano,  poveretto, vive solo, è un po’ scorbutico, ma è una brava persona», aveva risposto la portinaia.

 Quelle parole avevano fatto scattare nella sua mente un’idea; spronato dal pensiero di mettere le mani su tutto quel denaro aveva deciso di agire la notte stessa. Ci aveva pensato  tutto il giorno, non riusciva a togliersi dalla mente quel mucchio di soldi che avrebbero potuto essere suoi, come un automa si era trovato in quel palazzo quando tutto era silenzio per tacitare la voglia che lo possedeva come una febbre. Per uno come lui abituato agli scassi, aprire la porta di quell’abbaino era stato un gioco. Il vecchio non gli faceva paura… l’avrebbe convinto con i suoi metodi a mollare. Ma non aveva fatto i conti con l’imprevedibile vitalità del suo avversario. Quante volte lo minacciò inutilmente? Non se lo ricordava più,  aveva ben chiaro però  il momento in cui il vecchio cercò di colpirlo con un antico pugnale. Il poveretto non aveva fatto in tempo ad alzare il braccio che si era trovato per terra con la testa spaccata da un fermacarte di marmo nero.

 Preso dal panico aveva freneticamente rovesciato i cassetti, sventrato i cuscini, cercato dappertutto, finalmente aveva trovato i soldi nascosti in un cassetto segreto di  un vecchio trumeau. Aveva cacciato tutto nella borsa e si era  precipitato per le scale.

La visione delle banconote sparse sul letto gli dava un’euforia mai provata: «Bel colpo! questa volta mi metto a posto per un bel po’».  Si fregò le mani e cominciò a fantasticare: si guardò intorno: via di qui, subito! In un bell’albergo, magari sulla Costa Azzurra a fare il signore. Il miagolio di un  gatto sul tetto del capannone gli evocò improvvisamente la visione della donna che accarezzava il piccolo soriano e questo pensiero lo gelò. «Accidenti, quella strega mi ha visto! Se la polizia le mostra le mie foto sono fritto! Mi riconoscerà certamente, devo squagliarmela subito prima che trovino il cadavere».

Infilò un giubbotto, afferrò la borsa e si precipitò fuori. Le sue lunghe gambe si muovevano frenetiche, quasi correndo ripassò davanti al portone dal quale era uscito poco prima. Nessuna emozione era dentro di lui, pensava freddamente a come togliersi dai guai. La sua mente lavorava come un computer in cerca della soluzione, l’aria fresca della notte l’aveva rinvigorito. La via più facile da seguire era quella di prendere il primo treno che passava dalla stazione e sparire, allontanarsi il più possibile dalla città. Un gatto nero gli attraversò la strada: «Sempre gatti fra i piedi!», esclamò. Gli allungò un calcio, il poveretto fuggì miagolando di dolore e sparì dietro un bidone della spazzatura. In quell’istante nel cervello dell’uomo scattò qualcosa di perverso. Si girò di colpo e tornò sui suoi passi. Poco dopo si ritrovò davanti alla casa del delitto. Con gesto abituale trasse di tasca un mazzo di chiavi, ne cercò una e aprì il portone. L’atrio era immerso nel buio, salì guardingo le scale illuminate da una luce fioca. Stava attento ad ogni più piccolo rumore pronto a fuggire al primo allarme. Arrivò indisturbato davanti alla porta della signorina Clotilde, con occhio esperto valutò la serratura e un sorrisino increspò le sue labbra. Ricordò le parole: «Lo sai che sono sola ed ho paura», aveva detto la donna al gatto…«Bene», mormorò l’uomo, «adesso ci penso io».   Appoggiò per terra la borsa con i soldi e, prima di mettersi all’opera, lanciò uno sguardo di sopra, verso le scale che salivano all’abbaino, scrollò le spalle e piano piano cercò di aprire la porta che aveva davanti. Per un ladro professionista come lui fu una questione di minuti, infatti poco dopo docilmente l’uscio si aprì.

 Si trovò dentro, al buio; strizzò gli occhi per cercare uno spiraglio di luce. La casa era immersa nel silenzio, stava per muoversi a tentoni ma… il miagolio del gatto che aveva sentito entrare un estraneo, lo bloccò.

«Che succede Pallino?». La voce assonnata della signorina Clotilde lo guidò nella stanza vicina. Ormai i suoi occhi si erano abituati all’oscurità e scorse, nel letto in mezzo alla stanza, la figura della donna coricata.

«Chi è?», chiese la signorina Clotilde con un filo di voce, «Sei tu Flavio?»

L’uomo con mossa fulminea le fu addosso.  «Zitta!…ti farò tacere per sempre così non andrai a spifferare che mi hai visto stanotte…meglio essere prudenti». Le mise una mano sulla bocca mentre la poveretta emetteva un mugolio di terrore. Il suo aggressore prese il cuscino  e lo premette con forza sul viso della donna, ma il gatto con un balzo gli saltò sul collo. Imprecando l’uomo cercò di difendersi dai graffi della bestia infuriata, alzò le mani e perse l’equilibrio. Si aggrappò al comodino rovesciandolo, il rumore ingigantito dal silenzio echeggiò nella stanza. Stava per cadere all’indietro quando sentì la morsa di un braccio che lo afferrava..

«Cosa fai, mascalzone…cosa cerchi qua dentro?», disse una voce concitata.

L’uomo si girò appena in tempo per ricevere un pugno in pieno viso che lo stese sul pavimento.

Intanto la signorina Clotilde si era liberata del cuscino e con voce piagnucolosa andava ripetendo: «Che succede? cosa mi hanno fatto?». Aveva il viso pallido, le sue mani annaspavano nell’aria in un estremo tentativo di difesa senza rendersi conto che ormai era salva.

Flavio, il nipote poliziotto le si avvicinò premuroso: «Stai bene zia? meno male che c’era Pallino…e che io ero appena rientrato!», le disse cercando di calmarla. «Ora stai tranquilla, è tutto finito».  Ma l’anziana signorina continuava a piangere sommessamente. L’uomo steso a terra stava riprendendo i sensi, approfittando della momentanea disattenzione di Flavio, cercò di alzarsi per afferrare la borsa sul pavimento, ma il poliziotto fu più svelto di lui.

«Ma…questa è la borsa del signor Vincenzo!» esclamò sorpreso. L’aprì e : «è piena di soldi!!»

Quella borsa era inconfondibile: di vecchio cuoio nero, un po’ rigonfia, con il manico in ottone lavorato e una singolare serratura a forma di foglia di quercia. Quante volte l’aveva vista in mano all’antiquario!

Prima che l’uomo per terra si rialzasse, con un balzo gli fu sopra, l’ammanettò con le mani dietro la schiena.

Con la punta del piede scostò la borsa: «Cosa significa?», chiese.

L’altro chinò la testa senza rispondere. Flavio lo prese per il mento e l’obbligò a guardarlo in viso:

«Cosa hai fatto, disgraziato!». Nella sua voce c’era tanta rabbia, strinse i pugni per trattenere l’impulso di picchiarlo, con uno spintone lo spinse fuori dalla porta: «Adesso cammina, andiamo di sopra», gli intimò.

   Intanto la signorina Clotilde, sempre più confusa,  abbracciava il gatto che si era rifugiato nel letto spaventato da tutto quel trambusto. I due uomini  salirono i gradini lentamente, la porta dell’abbaino era aperta e il corpo senza vita del vecchio giaceva sul pavimento, quasi davanti all’entrata.  Flavio soffocò un grido d’orrore.
  “Sei stato tu!”, gridò in faccia all’uomo che lo fissava inebetito  Il poliziotto lo prese per le spalle e lo scrollò come un sacco di stracci
“Perché sei entrato in casa di mia zia? Volevi ucciderla…perché ?”
Con la voce roca l’altro urlò: “Quella vecchia e il suo stramaledetto gatto! Mi aveva visto… era sulle scale quando scendevo dopo…”, si interruppe e si guardò intorno.
“Dopo aver ammazzato quel poveraccio…”, concluse Flavio. Poi riprese con voce stanca:” Questa volta hai fatto un passo falso, amico, mia zia non poteva vederti…è cieca! Se tu non fossi tornato forse l’avresti fatta franca.”

Negli occhi dell’uomo in manette passò un lampo di stupore, poi scoppiò in una risata isterica. Flavio estrasse di tasca il cellulare e chiamò i colleghi perché mandassero una vettura per portare via l’assassino.

Ormai albeggiava, le grandi finestre delle scale erano diventate trasparenti; l’uomo, seduto sui gradini aspettava che si compisse il suo destino, mentre il gatto davanti a lui lo fissava con gli occhi verdi socchiusi inarcando la schiena

 

Lucia Baldanchini Gerelli – via Trescore,19 – Milano

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«Sei stato tu!», gridò in faccia all’uomo che lo fissava inebetito. Il poliziotto lo prese per le spalle e lo scrollò come un sacco di stracci.

«Perché sei entrato in casa di mia zia? Volevi uccidere anche lei…perché?»

Con la voce roca l’altro urlò: «Quella vecchia e il suo stramaledetto gatto! Mi aveva visto…era sulle scale quando scendevo dopo…»,  si interruppe e guardò il cadavere ai suoi piedi.

«…dopo aver ammazzato questo poveretto».  Concluse Fabio. Poi riprese con voce stanca:

«Questa volta hai fatto un passo falso, amico, mia zia non poteva vederti perché…è cieca. Se tu non fossi tornato forse l’avresti fatta franca»

Negli occhi dell’uomo passò un lampo di stupore, poi scoppiò in una risata isterica. Flavio trasse di tasca il cellulare: «Venite a prendere un assassino…», disse lentamente.

Ormai albeggiava, le grandi finestre delle scale erano diventate trasparenti, l’uomo, seduto sui gradini aspettava che si compisse il suo destino mentre il gatto, davanti a lui lo fissava con gli occhi verdi socchiusi inarcando la schiena.
                                                                                                                                                        

 

FINE