Powered By Blogger

martedì 4 novembre 2014

QUEL MALEDETTO GIORNO


 Terminata la faticosa giornata all'Università dove insegnava matematica , il professor Enrico Corsi, come tutte le sere,  rientrava nella sua bella casa nascosta nel verde dove l'aspettava , la moglie americana sposata da poco. Lui era un uomo sulla cinquantina e lei una bella e giovane donna di trent'anni che aveva lasciato la California per amor suo, era stato un matrimonio perfetto fino a quando non era arrivato un affascinante vicino nella villetta accanto. Appena l'aveva visto aveva avuto la sensazione che il suo arrivo gli avrebbe procurato guai, si era accorto di avere una specie di avversione per quell’uomo alto, abbronzato, con i capelli neri e ricci, l'esatto suo contrario: lui era di statura media, portava occhiali con montatura pesante e minacciava una calvizie incipiente.

Non aveva fatto mistero con Susan della sua antipatia nei confronti del nuovo venuto:
 «Sei geloso?», gli aveva chiesto lei con un sorrisetto provocatorio.
«Figurati, mi considero al di sopra di qualsiasi bellimbusto», aveva ribattuto seccato.
  Nella villetta accanto c’era sempre un via vai di persone ad ogni ora del giorno e spesso  i festini andavano avanti fino all’alba. Una notte, infastidito dal chiasso che gli impediva di prendere sonno, Corsi andò a bussare:
« Le sembra l’ora di fare tanto baccano? », aveva chiesto furibondo.
«Scusi…però, non è poi così tardi, sono soltanto le tre»,  aveva risposto l’uomo che era venuto ad aprirgli.
Il professore non riuscì a frenarsi e si mise ad imprecare  a voce alta svegliando il vicinato: «Non può permettersi di disturbare il sonno degli altri, lei è un incivile! la smetta, altrimenti…», urlò fuori di sé. Da quel giorno evitarono di salutarsi.
 
A bordo della sua  Mercedes nera, il docente stava percorrendo la solita strada poco frequentata, guidava a velocità moderata immerso nei propri pensieri , all’uscita di una galleria  notò in lontananza una vettura ferma ai bordi della strada, non c’era nessuno accanto all'auto, ma dopo essersi avvicinato vide una figura femminile china sul cofano aperto del motore,  si fermò:
«Posso aiutarla?», chiese sporgendosi dal finestrino.
La donna sobbalzò, alzò la testa e lo fissò preoccupata; Corsi aprì la portiera e uscì:
«Posso dare un’occhiata?  non me ne intendo molto, ma forse qualcosa più di lei...», sorrise alla ragazza: era carina, bionda e giovane. S’immerse fra candele, cilindri, carburatore cercando di capire dov'era il guasto, ma dopo aver armeggiato sperando in un miracolo, dovette arrendersi:
 «Chiamiamo il soccorso stradale... mi dispiace, non ce l'ho fatta», disse alzando la testa e rivolgendosi  alla giovane sconosciuta.  Ma la ragazza  non era più accanto a lui.... era a bordo della Mercedes e la stava mettendo in moto.
«Ferma...cosa sta facendo!!!», urlò...ciò che vide lo sconvolse, la sua vettura sgommando si stava immettendo sulla carreggiata a tutta velocità. Non gli rimase altro che  fissare l’auto che diventava sempre più piccola fino a scomparire alla sua vista. Si guardò intorno sgomento, cercò di fermare qualche automobilista di passaggio ma  nessuno si arrestava, con quello che si sentiva in giro, la gente non si fidava e aveva paura.
«Accidenti in che guaio mi sono cacciato, mi sono lasciato infinocchiare…sono proprio un imbecille», si insultò, cercò nelle tasche il telefonino, ma si ricordò di averlo lasciato  nella giacca rimasta nell’auto….oltre al portafoglio e ai documenti. Non sapendo cosa altro fare decise di raggiungere il primo punto di soccorso stradale, ma nell’attimo in cui si stava mettendo in marcia, una vettura della polizia si fermò, era tanto agitato che non l’aveva neppure sentita arrivare.
Il poliziotto scese: « Non riparte ?», chiese indicando l’auto con il cofano ancora aperto..
Corsi allargò le braccia:
 «No, non so dov’è il guasto… non è la mia», rispose ancora sotto choc.
«Come non è la sua?», disse l’agente avvicinandosi.
«Le posso spiegare: sono stato vittima di un furto», cominciò, ma l’uomo in divisa non lo stava a sentire. Stava osservando con sospetto l’auto cercando di capire come mai quel tale era fermo ai bordi della carreggiata accanto ad una vettura non sua. Girò attorno e si fermò davanti al baule:
«Vuole aprire?», chiese rivolgendosi al professore.
Questi entrò nell’abitacolo e tirò la leva sotto il cruscotto ; l’esclamazione dell’agente lo fece sussultare, scese e ciò che vide lo sconvolse: nel bagagliaio c’era il cadavere insanguinato di un uomo raggomitolato su se stesso.
«Mio Dio… chi è?» domandò con un filo di voce.
«Questo lo chiedo a lei», disse il poliziotto fissandolo in viso e aspettando una risposta.
 Cominciò a tremare per l’emozione, continuava a fissare quel corpo senza vita:
 «Mi creda, non ne so nulla…le ripeto: questa vettura non è mia, sono stato derubato ….», balbettò, «non sono stato io…sono il professor Enrico Corsi e insegno all’Università, non sarei mai capace di uccidere”.
L’altro non lo lasciò finire:
 «Mi dia i documenti, e poi racconterà la sua versione a chi di dovere», affermò secco.
 Il professore costernato dovette dire che non possedeva nessun documento: si erano involati con la Mercedes.
«Molto bene, ricapitoliamo, la vettura non è sua, lei non sa di chi sia questo cadavere e non mi può fornire i documenti…quante coincidenze!», esclamò sarcastico il poliziotto prendendo il telefono di servizio.
«Manda il medico legale al km 60 della provinciale, c’è un morto nel baule di una macchina», disse al collega che aveva risposto alla sua chiamata.
 Intanto Corsi stava per svenire: aveva riconosciuto nel corpo senza vita il suo vicino di casa. Il sangue gli si era gelato nelle vene: si rendeva conto di essere sempre più in pericolo, era talmente assurda tutta la vicenda che la verità era difficile da credere …era stato coinvolto in un omicidio e non sarebbe stato facile uscirne.
Poco dopo, seduto davanti al commissario Parisi, capo della sezione omicidi, aveva la fronte imperlata da piccole gocce di sudore e il corpo irrigidito… stava vivendo un sogno?
 «Dunque, mi dica dove abita, professore», disse il commissario soffermandosi  ironicamente sull’ultima parola.
Enrico Corsi rispose meccanicamente, Parisi lo fissò sporgendosi dalla scrivania:
 «Abbiamo individuato la vittima, Wladimir  Bosnac che, guarda caso è un suo vicino di casa…cosa mi racconta in proposito?».
Ormai il pover’uomo non sapeva più cosa rispondere, aveva detto troppe volte come erano andate le cose, sul viso di chi l’ascoltava leggeva l’incredulità, era talmente sfiduciato che avrebbe voluto  abbandonarsi al destino avverso senza combattere.
«Lo conoscevo appena, non so niente di lui…credetemi, non l’ho ucciso io!», c’era il pianto nella sua voce.
«Eppure gli abitanti della zona hanno detto di averlo sentito gridare nel cuore della notte contro il suo vicino», incalzò il poliziotto.
«Chiamate mia moglie, voglio vederla», ormai non aveva più risposte da dare e aveva bisogno di avere qualcuno che lo guardasse con altri occhi.
«Siamo costretti a trattenerla finché non abbiamo appurato la sua vera identità…ad avvertire sua moglie ci penseremo poi», affermò il commissario.
Enrico Corsi passò la notte in camera di sicurezza, non avrebbe mai creduto nella sua vita di andare in prigione, le ore non passavano mai, nella sua mente si accavallavano mille pensieri negativi…ormai disperava di uscire da quella situazione così paradossale da sembrare costruita, le cose si erano svolte troppo in fretta per poterci ragionare sopra.
Chi era quella donna che l’aveva così facilmente turlupinato?…Perché aveva scelto proprio lui? Queste domande lo assillavano e… come poteva difendersi dalle accuse se non poteva fornire prove a sua discolpa! Sperava che la polizia indagasse a fondo senza accontentarsi dell’evidenza, forse il commissario che l’aveva interrogato era scrupoloso e non si sarebbe fermato, aveva fiducia in quell’uomo, e la speranza era la sola che lo tenesse in vita.
Anche la notte del commissario Parisi non era stata serena, il caso del cadavere nel bagagliaio, anche se poteva dirsi praticamente risolto, aveva qualche punto oscuro. Doveva proseguire le indagini per appurare la vera identità del presunto assassino, poi per trovare un eventuale movente. La vittima era uno slavo dal passato losco, una specie di avventuriero che aveva avuto problemi con la giustizia per droga e incitamento alla prostituzione. Era da poco ritornato dagli Stati Uniti e aveva preso alloggio nella villetta adiacente a quella dell’imputato. Parisi doveva essere sicuro che non ci fosse qualche legame tra i due, durante l’interrogatorio, molte volte aveva avuto la sensazione che il sedicente professore dicesse la verità.
Susan si presentò in commissariato e venne messa a confronto col marito:
«Finalmente!…», esclamò lui mentre la guardava come si guarda un’apparizione, «diglielo tu che non c’entro niente in tutta questa storia, tu sai benissimo che non  ho mai avuto a che fare con quel tipo», supplicò.
 Il commissario invitò la donna a sedersi:
 «Quest’uomo è Enrico Corsi, suo marito?», chiese.
 Lei assentì, tesa con le labbra serrate.
«Cosa può dirmi dei suoi rapporti con la vittima? è vero che hanno avuto una disputa accesa in cui sono volate minacce e insulti?», incalzò il commissario.
Susan impallidì ancora di più, rimase in silenzio per qualche secondo:
 «E’ vero, mio marito odiava quell’uomo e ha minacciato più volte di ucciderlo per gelosia», rispose infine abbassando lo sguardo per non incontrare quello del professore.
«Nooo…non è vero, lo conoscevo appena! Cosa stai dicendo Susan, perché fai questo?…Mi vuoi distruggere?», urlò Corsi stravolto.
 Parisi guardava ora l’uno ora l’altra, non sapeva a chi credere ma il suo fiuto gli diceva che la verità era ancora lontana.
Aspettò un attimo poi:
 «Corsi…la testimonianza di sua moglie mi costringe ad arrestarla », affermò sinceramente dispiaciuto, in fin dei conti quel poveretto gli faceva pena, forse stava dicendo il vero e nessuno gli credeva.
«Susan…perché…», ripeteva il professore scuotendo il capo senza togliere lo sguardo dal viso della moglie che lo fissava freddamente.
L’uomo si lasciò condurre fuori mentre Susan lasciava il locale in fretta senza voltarsi indietro.
 
Qualche giorno dopo il telefono della villetta del professor Corsi subì un guasto, un uomo in tuta blu si qualificò come tecnico delle linee telefoniche e chiese di entrare, Susan lo condusse all’apparecchio. Passarono pochi minuti e l’operaio si rivolse alla padrona di casa:
«E’ tutto a posto, signora….è stato un guasto alla cabina centrale», disse mettendo in borsa gli arnesi.
A poca distanza dalla casa era fermo un furgone grigio, all’interno il commissario Parisi, con l’agente speciale Loredana Caputo, si accingeva ad ascoltare quello che succedeva nell’abitazione del professore, dopo essersi assicurato che funzionasse  “la pulce” inserita nel telefono dal finto tecnico.
Passò qualche giorno ma dentro la villa non succedeva nulla d’ interessante:
 «Domani sgomberiamo…abbiamo fatto un buco nell’acqua», affermò il commissario stanco di sentire banalità.
«Commissario, aspettiamo ancora qualche giorno….sento che succederà qualcosa», disse la Caputo.
Parisi la guardò :
 « E va bene…oggi è venerdì, passeremo il week-end qui dentro!», brontolò seccato.
  Però, proprio il giorno dopo verso sera Parisi lanciò un’occhiata alla sua assistente:
«Caputo avevi ragione…ci siamo!», esclamò .
 Ascoltò attentamente il dialogo fra due donne al telefono:
 «Stai attenta a venire qui…non voglio che ti vedano, devi essere prudente», diceva la moglie del professore.
«Non ti preoccupare Susan, nessuno si è accorto di me, volevo dirti che i passaporti sono pronti e domani ce ne andremo finalmente!», rispondeva l’altra voce femminile.
«Mi sembra un sogno essermi liberata di quel disgraziato, Wladimir  se l’è cercata…non doveva ricattarmi, il ricordo di quando ero sulla strada a prostituirmi per lui era quasi cancellato, ormai mi ero rifatta una vita, avevo sposato una persona perbene, ma poi si  è rifatto vivo! Ti ricordi com'ero disperata quando l'ho visto venire a piazzarsi proprio nella villa vicina ? Comunque sei stata brava a farlo cadere nella rete, se non c’eri tu ad avere il sangue freddo di accoltellarlo io non ne sarei stata capace. E ti devo fare anche i complimenti per essere riuscita a incastrare mio marito sull’autostrada…a volte mi dispiace, ma non avevo scelta o lui o noi! Non ti pare giusto?»
Il commissario Parisi ascoltava trionfante, fin dal primo momento Susan non gli era piaciuta, aveva lo sguardo falso e lui se n’era accorto…
«Caputo, chiama i rinforzi e vai ad arrestare quella donna !...e trova quell’altra…però hai un buon fiuto…brava!».
Quando le manette scattarono ai polsi delle due assassine, il comandante della sezione omicidi era soddisfatto di se stesso: il caso era chiuso, il professore poteva tornare in libertà.
«Lei può andare a casa», annunciò la sera stessa a Corsi che lo guardava con occhi stupiti.
«Avete preso il colpevole?», chiese l’uomo incredulo, «chi è stato?».
«Si tenga forte…sua moglie Susan con un’amica, e hanno tentato di far cadere la colpa su di lei», concluse Parisi tristemente, si rendeva conto che per quel poveraccio era una notizia sconvolgente.
 Enrico Corsi impallidì:
 «Non ci posso credere, la mia Susan voleva distruggermi…», balbettò,  «quel maledetto giorno lo ricorderò per sempre».
«Coraggio professore…la vita ricomincerà e, me lo lasci dire, quella non era la donna per lei!», esclamò Parisi battendogli una mano sulle spalle.
 L’uomo sorrise mesto:
 «Forse ha ragione, commissario», disse accingendosi ad uscire.
L’aria fresca gli sferzò il viso, guardò in alto, il cielo era sereno senza nubi, s’incamminò con passo svelto verso un nuovo avvenire.
 

                                                                                                                                                FINE

 
 
 
 
 


 




 

 

giovedì 4 settembre 2014

IL SEGRETO DI FRATE MARCELLO


 


Il dottor Malvin non riusciva a prendere sonno. Da qualche ora una strana elettricità era nell’aria: la sentiva sulla pelle e dentro di sé. Si rigirava nel letto cercando tutte le posizioni per addormentarsi; un lampo improvviso, seguito dal tuono, lo fece sobbalzare. “Sta arrivando il temporale, ecco perché sono così nervoso”, pensò. Di lì a poco si scatenò l’inferno, dalle fessure delle tapparelle abbassate filtrava la luce accecante dei fulmini che attraversavano il cielo uno dopo l’altro. Il dottor Malvin mise la testa sotto il cuscino per non sentire e per non vedere: aveva bisogno di dormire, la giornata trascorsa era stata faticosa ed era molto stanco.

Fuori il temporale non accennava a calmarsi e nemmeno il dottore riusciva a trovare pace. Sempre più agitato si alzò dal letto e andò alla finestra. Gli alberi si piegavano sotto le raffiche del vento e la pioggia scendeva incessante; la sua attenzione fu attirata da una cosa bianca che si muoveva fra le foglie di un cespuglio.  “Che notte… ci sono anche i fantasmi…”, scosse la testa e puntò gli occhi in quella direzione cercando di vedere meglio. Malvin era un tipo molto aderente alla realtà, per lui l’uomo era solo materia e, come molti scienziati non credeva al soprannaturale e tantomeno agli spiriti. Tuttavia quella figura bianca che si muoveva nella notte gli metteva una certa inquietudine. Rimase in silenzio a osservare, la sagoma  stava attraversando il giardino e si dirigeva verso la porta di casa sua. Poco dopo il suono del campanello lo colse di sorpresa, “i fantasmi non suonano il campanello” si disse.

 Scese le scale per andare ad aprire: davanti a lui c’era un giovane frate con la tonaca bianca grondante acqua che, con la voce affannata per la corsa disse tutto d’un fiato:

“La prego dottore, venga subito, un nostro confratello sta male, non sappiamo cosa fare, è urgente”.

Il dottor Malvin lo guardò:

“Va bene, si calmi, sarò pronto in pochi minuti.”, poi prima di risalire le scale chiese: “E' nel convento qui vicino?”

“Sì”, rispose il fraticello,  " sulla collina poco distante da qui”.

Arrivati nell’antica abbazia il priore lo accolse con sollievo:

“Meno male che è arrivato, dottore, frate Marcello sta molto male, ha cominciato a lamentarsi, non ci vuole dire nulla, ma con il passare del tempo sta sempre peggio.

“Vediamo”, rispose  Malvin, “mi accompagni da lui”.

 Attraversarono un portico e un cortile, in un caseggiato basso c’erano le celle dei frati. Il priore entrò in una di esse: su una branda un frate era raggomitolato su se stesso.

“Coraggio, frate Marcello, c’è il dottore”, sussurrò l’abate. Si volse verso il medico: “E’ un santo, non esce mai, passa le giornate in preghiera”.

Gli occhi carichi di sofferenza dell’uomo sdraiato sul letto si alzarono sul viso di Malvin:

“La ringrazio di essere venuto”, disse con un filo di voce, “ma credo sia troppo tardi.”

“Questo lo devo dire io”, ribatté il medico, “adesso si lasci visitare”.

Poco dopo Malvin estrasse dalla borsa una siringa e si accinse a fare un’iniezione calmante al poveretto. Dalla sua fronte corrugata si capiva che era preoccupato, non riusciva a fare una diagnosi: apparentemente sembrava non ci fosse nulla di grave, forse solo una colica, ma quello che leggeva negli occhi del frate lo metteva in ansia. Ad un tratto sentì una stretta al braccio:

“Dottore, devo parlarle”, bisbigliò frate Marcello, “si sieda vicino a me”, con la mano fece segno al bordo del letto. Malvin stupito ubbidì.

“E’ stata lei”, disse sbarrando gli occhi.

“Chi?”, chiese il dottore sempre più meravigliato.

“Rosa…è venuta stanotte a prendermi, e io devo andare”, continuò il frate,

Il dottor Malvin si guardò intorno, era rimasto solo con lui, non sapeva cosa fare, era convinto che stesse delirando. “Stia tranquillo”, disse, “ cerchi di controllarsi, fra poco starà  meglio”.

“No, io so che è arrivato il mio momento. Dottore, mi ascolti, devo rivelarle un segreto che mi opprime da tanto tempo.”, il frate strinse ancora di più il braccio di Malvin .

“L’ascolto”, rispose Malvin turbato dall’angoscia di quell’uomo.  

 “Quando ero giovane ho ucciso una donna…”, disse fra’ Marcello con gli occhi bassi, “era la mia ragazza, si chiamava Rosa, l’ho accoltellata per gelosia”.

Il medico ebbe un sussulto e guardò il frate con aria smarrita, l’altro capì che poteva non essere creduto:

“Guardi…”, da sotto la tonaca trasse un orologio, fece scattare il coperchio e apparve un viso dolcissimo di donna, poi faticosamente si alzò, tolse da una pila di libri un mucchietto di fogli ingialliti: erano pagine di giornale, in molte di esse c’era la foto di una ragazza. “è questa”, disse ancora il frate sedendosi sfinito. Malvin riconobbe in quelle immagini la donna del piccolo ritratto.  “Io allora ero un professionista molto conosciuto nella mia città”, proseguì con affanno , “non ho avuto il coraggio di costituirmi per non far scoppiare uno scandalo che avrebbe danneggiato anche la mia famiglia”. L’uomo si coprì il volto con le mani in preda alla disperazione.

 Con gli occhi che gli bruciavano il dottor Malvin cominciò a leggere, man mano che andava avanti si rendeva conto che il frate forse stava dicendo la verità, quel fatto di sangue, accaduto una decina di anni prima aveva fatto scalpore, quella bella ragazza era la figlia di un noto industriale, il cadavere era stato scoperto in un bosco con una sola ferita all’altezza del cuore. Non era stata mai trovata l’arma del delitto, si diceva che poteva essere stato un kriss malese, uno di quei pugnali con la lama ritorta, usati anche come tagliacarte.

“Perché mi dice di essere stato lei, frate Marcello, qui è scritto che il colpevole è stato trovato”, disse il dottor Malvin alzando gli occhi dai fogli di giornale e cercando di capire dall’espressione dell’altro cosa stesse succedendo dentro quell’anima tormentata.

“Quel ragazzo è innocente”, l’uomo aveva la voce debole.

 Malvin gli andò più vicino per sentire quello che diceva.

 “Sono stato io, dottore deve credermi… lei aveva un altro e io non potevo sopportare che qualcuno la toccasse all’infuori di me. Non ho capito più niente, l’ho portata nel bosco e , l’ho uccisa. Poi ero disperato, avevo distrutto con le mie mani la sola ragione della mia vita”, le lacrime cadevano copiose sul volto rugoso del frate, “il mondo non faceva più per me, la giustizia terrena non bastava, sono in convento per espiare ma sono stato un vigliacco, ho lasciato condannare un altro uomo al mio posto, la prego dottore, quando non ci sarò più racconti tutto alla polizia. Ho tenuto dentro di me questo segreto per dieci lunghi anni, aspettavo il momento per togliermi questo peso dal cuore. Rosa mi ha chiamato, ora devo raggiungerla, dottore, mi deve giurare che farà quello che le ho chiesto”. Il dottor Malvin si rese conto che il frate era in fin di vita, vedeva l’uomo impallidire sempre più:

“ Va bene, ma adesso si deve fare coraggio, la porto subito in ospedale, cerchi di resistere”.

Frate Marcello lo attirò a sé:

 “Il pugnale con cui l’ho uccisa …è…”, non finì la frase perché la vita l’aveva abbandonato.

Con orrore il dottore vide formarsi sulla pelle del poveretto, proprio sopra il cuore, il segno rosso di una cicatrice che prima non c’era.

Quando rientrò in casa il medico era sconvolto, aveva assistito a un fatto inspiegabile alla mente umana.

 Non riusciva a capire come mai quella ferita fosse apparsa, dopo che il povero frate era morto, era sicuro di averlo visitato e di non aver visto niente prima, i fraticelli attoniti erano arrivati uno a uno a pregare davanti al loro fratello che reputavano un santo, per loro quello era un segno di Dio. Ma non era così per quel miscredente del dottor Malvin, quel pensiero lo perseguitò per giorni e giorni, e ancor più lo metteva in ansia il fatto di dover tener fede al suo giuramento. Doveva credere al frate oppure, com’ era probabile, era tutto frutto di una mente sconvolta dalla vita reclusa che aveva condotto per tanti anni? E se invece avesse detto la verità?  Un innocente stava scontando una pena che non meritava.  Però, come poteva andare a denunciare il fatto se non aveva nessuna prova? Il frate stava dicendogli dove aveva nascosto il coltello, ma non ne aveva avuto il tempo.  Tutti questi pensieri tormentavano la vita del dottore, non riusciva più a dormire, il suo pensiero fisso era sempre rivolto al segreto di frate Marcello.

Dopo quasi una settimana di angosciosi dubbi decise di andare a rivelare alle autorità ciò che aveva appreso sul delitto del bosco. Quella notte ebbe un incubo: una voce di donna lo chiamava, una figura femminile dai contorni nebulosi gli porgeva un oggetto, lui cercava di afferrarlo, ma non riusciva a  muoversi. ”Vieni…vieni a prendere l’arma che mi ha tolto la vita”, Malvin allungava le mani ma, per quanti sforzi facesse non riusciva ad arrivare a quello strano arnese. Si svegliò in un bagno di sudore con il cuore che gli batteva come un martello. Si alzò, non riusciva a stare coricato, aveva paura di addormentarsi e di sognare ancora. Gironzolò per la casa finché non vide apparire l’alba.

Andò in cucina a prepararsi un caffè, stava armeggiando con la caffettiera quando sentì bussare alla porta, guardò l’orologio: erano le cinque di mattina. “Sarà qualcuno per la solita visita d’urgenza”, brontolò fra sé. In pigiama e pantofole andò alla porta: una giovane donna era sulla soglia.

“Desidera?”, chiese Malvin. Uno strano malessere lo pervase, una sensazione di freddo accompagnata da un lungo brivido. La donna rimase in silenzio, il dottore rifece la domanda, lei senza parlare entrò. Il dottor Malvin la seguì con lo sguardo sempre più disorientato:

“Signorina, la prego, mi dica cosa vuole a quest’ora”, sbottò spazientito.

Il volto della strana visitatrice, rimasto in penombra fino ad allora, s’illuminò alla luce del lampadario, il cuore del medico cominciò a battere più velocemente: aveva riconosciuto il viso della donna del ritratto dell’orologio del frate e delle foto sui giornali. Rosa! Mentre la sconosciuta si aggirava per  la stanza nella mente di Malvin c’era come una tempesta: non voleva cedere alla cosa assurda che stava vivendo. Quella ragazza non era un fantasma, era certamente qualcuno che assomigliava alla donna di frate Marcello…Si avvicinò a lei cercando di metterle una mano sulla spalla, ma in quel preciso istante inciampò nel tappeto e cadde. Quando si rialzò si ritrovò solo nella stanza, non c’era nessun altro all’infuori di lui. La donna che fino a un istante prima era lì, vicina al tavolo e che lo fissava con strani occhi senza sguardo, non c’era più. Si rimise in piedi e si precipitò ad aprire la porta e guardare fuori, solo il frusciare degli alberi e il canto degli uccelli stavano a dimostrare che non stava più sognando, ma non c’era anima viva in giardino.

Rientrò in casa ancora incredulo: era convinto che quella donna dovesse essere da qualche parte, ispezionò la casa da cima a fondo senza risultato, ma non si dava per vinto e cercava un pretesto per non cedere al fatto di aver vissuto qualcosa che non era reale, ma soprannaturale.

“Certamente si era spaventata quando sono caduto, ed è fuggita, nascondendosi fra gli alberi, non me ne sono accorto, ma deve essere stato proprio così”.

Ancora turbato stava ritornando in cucina per cercare di prepararsi il caffè che non era riuscito a bere, passando davanti al tavolo del soggiorno, un oggetto attrasse la sua attenzione: qualcosa di metallico dalla forma strana era posato sulla superficie del mobile.

Si avvicinò, il turbamento che l’aveva colto poco prima si ripresentò: con la mano che tremava afferrò quella cosa. Un pugnale, con la lama ritorta mandava bagliori sinistri, Malvin lo rigirò stupefatto, un pensiero cominciò a frullargli nella mente e ricordò le parole del frate morente: “Il pugnale”. Sì, quello era il pugnale che aveva ucciso Rosa e lei gliel’aveva riportato : era la prova che gli serviva per andare dalle autorità e tenere fede al suo giuramento.  Il segreto di frate Marcello doveva essere rivelato per ridare la libertà a  un innocente, e il dottor Malvin da quel momento entrò in crisi avrebbe dovuto ricredersi su certe sue convinzioni fino ad allora incrollabili.

Avrebbe dovuto ammettere che oltre alla realtà esisteva anche un mondo occulto che non ha spiegazioni, è soltanto mistero.

 

FINE

sabato 9 agosto 2014

UNA STORIA A FUMETTI


Federico, comodamente sdraiato sull’amaca, sprofondato nella lettura del suo fumetto preferito era ansioso di vedere come andava a finire l’ennesima malefica avventura di Demon, il perfido personaggio che affascinava milioni di ragazzini attratti dal brivido dell’horror. “Ecco, sta per colpire…” e il cuore di Federico batteva un po’ più forte,  Demon, con il viso coperto da una maschera, era chino sul corpo di una giovane donna pronto ad affondare la lama…Nella sequenza successiva aveva già compiuto il delitto…nel petto della vittima era conficcato un pugnale con l’impugnatura raffigurante un diavolo che era la firma dei suoi delitti …una scarica di adrenalina scatenò un  brivido nella schiena del ragazzino.


 

Demon era la creatura di David Roman, disegnatore di fumetti, che aveva fatto la sua fortuna con quel personaggio diventato il protagonista di omicidi sempre più atroci, e proprio per questo sempre più richiesti dal pubblico di adolescenti e… dall’editore che aveva scoperto una miniera d’oro.

David subissato dalla domanda incessante dei disegni, aveva lavorato talmente tanto che la testa gli scoppiava…era molto stanco, e sentiva che se non avesse fatto una pausa i nervi sarebbero saltati… da un po’ di tempo si sentiva esaurito, aveva strani malesseri , ormai era talmente immedesimato nelle storie di Demon che era diventato il suo incubo: a volte si sorprendeva a pensare cosa avrebbe fatto al posto suo.

Dopo una notte passata a disegnare, l’uomo aveva deciso di staccare, il suo fisico reclamava un break, aveva uno chalet in montagna e sognava di andarsene lassù per riposare, respirare aria pura e pensare soltanto a godersi quei pochi giorni di vacanza.

 David non aveva mai avuto una famiglia, era cresciuto in un orfanotrofio che era stata la sua casa fino al diciottesimo anno quando aveva iniziato a vivere da solo e ad arrangiarsi per sbarcare il lunario. La mancanza di affetto aveva segnato il suo carattere che era diventato cupo, solitario, sempre in lotta con il genere umano.

 La sua passione era il disegno e aveva un talento naturale che lo portava a creare senza nessuna fatica, con grandi sacrifici si era concesso una scuola dove imparò a disegnare fumetti e da lì era nato Demon, un personaggio che per certi versi rispecchiava la sua rabbia verso l’umanità che non gli aveva dato nulla….ogni delitto commesso era una vendetta contro il mondo…ed era stato subito un successo insperato: il benessere era arrivato con facilità, ma non aveva alleggerito il rancore che teneva dentro..

Arrivò alla casetta verso sera dopo un pessimo viaggio per il traffico e per l’incessante martellamento dentro il cervello che da qualche tempo lo tormentava…si era accorto che per un attimo perdeva il contatto con la realtà e il cerchio alle tempie si faceva sempre più stretto. Si rilassò soltanto quando entrò nel silenzio dello chalet, come sempre spalancò le finestre: il sole stava calando e il tramonto tingeva di rosso le cime ancora innevate, quello spettacolo lo riconciliò con se stesso e con il mondo, la morsa interiore si allentò.

 “Non ce la facevo più”; mormorò fra sé, “meno male che sono venuto via….”. Preparò qualcosa da mangiare poi si buttò sul letto dove aspettò inutilmente il sonno, gli occhi sbarrati fissavano il soffitto di travi, inseguendo le evoluzioni di un ragnetto che intesseva la sua ragnatela…

 “Ho capito, nemmeno qui, riesco a dormire…”, si alzò e cercò nella  borsa il flacone del sonnifero…trangugiò due pillole con un grosso bicchiere d’acqua e si rimise a letto sperando di addormentarsi.

 

Nella casa accanto, anche Federico era sveglio, ma per lui era diverso…non aveva ancora finito di leggere il giornalino e non poteva smettere finché non aveva visto come andava a finire…la notte passò e arrivò un altro giorno: tormentato per David e sereno per il ragazzo…

Il cielo era azzurro e si preannunciava una giornata bellissima: Federico doveva incontrarsi con Matteo per andare alla Grotta del Lupo a raccogliere funghi.

 Si mise d’accordo con l’amico e salutò la mamma:

«Non sono molto tranquilla, voi due ragazzini andate nel bosco da soli, preferirei che aspettaste papà, tornerà fra poco», disse la donna.

«Non ti preoccupare, ha detto il padre di Matteo che ci accompagna lui», rispose pronto Federico cercando di dare alla voce un tono rassicurante (sapeva benissimo che Matteo non aveva detto niente in famiglia e che suo padre non sarebbe andato con loro). Tranquillizzata, la signora Laura mise a tracolla del figlio una borsa:

 «Qui c’è qualcosa da mangiare, ho messo anche il cellulare, per ogni evenienza, divertitevi».

Il ragazzo si allontanò sentendosi grande: stava andando a fare una passeggiata soltanto con un amico … fantastico … potevano fare quello che volevano, senza sentire le raccomandazioni dei grandi!

 

Intanto David Roman si era alzato con  la bocca amara e la testa pesante: non si sentiva molto bene, nonostante l’aria pura e il tempo splendido…

Il cellulare squillò: era l’editore che reclamava l’ultima puntata…..«Aspetterà», borbottò fra sé David senza rispondere. Cancellò con un rapido gesto il  numero dal display e uscì per andare nella boscaglia, fra i rami frondosi degli alberi, dove il sole non riusciva a penetrare e dove si sentiva a suo agio.

 Non era mai stato un amante della luce…nella penombra trovava la sua anima…buia e triste. Arrivò fino alla Grotta del Lupo camminando a fatica…gli sembrò di udire dei rumori e si affacciò alla spelonca, non era raro trovare dentro qualcuno poiché la grotta era una delle mete preferite dai turisti. Le voci infantili di Federico e Matteo gli giunsero smorzate dalla profondità, gli sembrò di udire un grido:

«C’è qualcuno?», urlò a sua volta.

«Aiuto!», la voce spaventata lo indusse ad inoltrarsi…poco dopo raggiunse i ragazzi che erano in difficoltà: uno dei due si era arrampicato sulla parete impervia e non ce la faceva più a tornare indietro, più che altro si era spaventato e, come paralizzato dal terrore, non riusciva a muoversi.

David lo raggiunse facilmente e l’aiutò a scendere:

«Siete soli?», chiese, «come vi siete cacciati in questo guaio?…non dovreste andarvene in giro senza essere accompagnati.».

 Matteo e Federico si guardarono in viso e confessarono di aver detto una bugia alle mamme, volevano esplorare la grotta  inoltrandosi oltre il proibito per provare l’emozione dell’avventura.

«Andate a casa…adesso, ormai si sta facendo tardi,», disse ancora David.

I due amici si prepararono ad uscire…dallo zainetto di Federico spuntava il giornalino con le avventure di Demon…l’uomo sorrise :

«Ti piace leggere i fumetti?», chiese rivolgendosi al ragazzo.

«Tantissimo…questo è il mio preferito», disse indicando il sinistro personaggio con il mantello rosso e la maschera nera.

«Sai chi sono io?», continuò David .

Federico lo guardò con l’aria imbambolata:

«No», rispose poi .

 David, prima di parlare l’osservò a lungo: nella sua mente ormai malata cominciò a delinearsi un desiderio malsano…

«Sono il creatore di Demon cioè, quello che l’ha inventato e lo disegna per te ogni settimana», affermò divertendosi a osservare l’effetto delle sue parole negli occhi dei due ragazzi che lo guardarono con stupore e ammirazione:

    «Davvero sei tu?», chiese infine Federico.

 «Certo, venite a casa mia e vi dimostrerò che sto dicendo la verità», propose e…alle tempie ricominciò a stringere la tenaglia che si era allentata.

I ragazzini lo seguirono incuriositi, non si sarebbero mai persi un’occasione simile da raccontare ai compagni .

Attraversarono il bosco e arrivarono allo chalet di David, poco lontano dalla casa di Federico. L’uomo li invitò ad entrare e chiuse a chiave la porta alle loro spalle. I due non vi fecero caso intenti ad ammirare i disegni sparsi un po’ dovunque che raffiguravano Demon, l’eroe negativo che li affascinava con le sue incredibili storie.

David  sentiva dentro di sé qualcosa che non aveva mai provato, mentre spiegava ai ragazzi come scaturivano le idee per disegnare le strisce, gli venivano alla mente strani pensieri.

Osservava attentamente come erano vestiti i bambini: indossavano indumenti di buona qualità, ricordava che alla loro età aveva dovuto penare per avere un paio di scarpe nuove…e rammentava anche quando la suora lo costringeva a mettere le magliette rammendate scartate da chi ne aveva troppe.

Improvvisamente esplose dentro di lui un odio che non riuscì a reprimere:

 «Venite, vi mostro altri disegni, sono i primi che ho fatto. Li tengo qui dentro», disse ai ragazzini spingendoli in uno sgabuzzino.

Federico e l’amico entrarono ignari di ciò che li aspettava, ma appena entrati la porta si chiuse con un  tonfo sordo e la chiave girò più volte nella toppa.

 Al buio si cercarono:  «Cosa sta succedendo?»; disse spaventato Matteo.

Federico cercò di scrollare l’uscio e si mise a urlare con tutto il fiato che aveva: «Lasciaci uscire…cosa vuoi da noi…non abbiamo fatto niente!!».

Dall’altra parte la voce alterata dell’uomo li fece tremare:

«Adesso siete miei prigionieri e Demon vi ucciderà!».

Terrorizzati i due bambini si abbracciarono:

«Cosa succederà ora?…quell’uomo ci vuole ammazzare», singhiozzò Matteo che era il più fragile dei due.

Federico lo prese per le spalle:

«Non piangere…sono sicuro che ce la caveremo», disse cercando di calmarlo.

 In quell’istante la porta si spalancò, David  balzò in avanti e cercò di legarli con una corda.

I due ragazzi scapparono, ma l’altro, in preda alla follia fu più svelto e riuscì a catturarli, senza curarsi dei loro pianti li legò stretti ad una sedia:

 «Ora non riuscirete più a fuggire…», una risata isterica uscì dalla sua bocca…, «anche Demon sarà felice di sapere che siete nelle mie mani….vado a chiamarlo», disse uscendo dalla stanza.

 

Erano passate parecchie ore, le famiglie dei ragazzi cominciavano a stare in apprensione: era ormai sera e non erano ancora tornati. Le madri si telefonarono e scoprirono che erano andati alla Grotta del Lupo da soli…cominciarono momenti di angoscia, l’attesa si faceva sempre più spasmodica…ogni voce li faceva sperare, ma il tempo implacabile passava senza notizie… quando si resero conto che stava diventando buio, piombarono nella disperazione.

«Vado a cercarli», decise il padre di Federico che non riusciva più a stare fermo.

Si recò nel bosco e passò davanti allo chalet di  David Roman senza sospettare che suo figlio era là dentro, nelle mani di un pazzo furioso che stava architettando di ucciderlo,

Intanto a casa la madre chiamava la polizia.

 

Nello chalet i due ragazzi stavano vivendo momenti di terrore, da quando li aveva minacciati quell’uomo non si era fatto più vedere…si udivano le sue frasi deliranti…le urla folli…questo li gettava  ancor più nel panico, aspettavano da un momento all’altro che mettesse in atto la sua minaccia.

 Si guardavano intorno sperando di trovare una via d’uscita, le sedie dove  erano legati erano poco lontane dagli zainetti.

«Non riesci ad arrivare allo zaino?», chiese Federico a Matteo che era il più vicino.

Facendo uno sforzo disperato e dopo parecchi tentativi il ragazzo riuscì a raggiungere la borsa con i piedi, allungandosi disperatamente l’accostò alla sedia… dalla tasca esterna spuntava il cellulare…

Intanto Federico si era accorto che la corda che gli legava le mani si  stava allentando: dimenò i polsi fino farsi uscire il sangue, con uno strappo finale, con  la forza della disperazione, riuscì a liberarsi.

«Stai calmo, vedrai che ci troveranno», rassicurò l’amico

Sempre tenendo sotto osservazione la porta da dove era uscito David, il ragazzino afferrò il cellulare e compose il numero di casa. La voce della mamma gli diede la forza di resistere.

Il disegnatore nella sua follia stava preparando gli strumenti per uccidere i due ragazzi…ormai agiva come il suo eroe di  carta:

 “Demon avrebbe fatto così”, si diceva cercando dei coltelli appuntiti per attuare la sua vendetta… “Ecco, questo va  bene”, mormorò fissando con occhi sbarrati la lama lucente…

Entrò nella stanza dove c’erano i ragazzi brandendo una mannaia…le urla dei bambini sovrastarono il suo grido mentre una camionetta della polizia stava  frenando in quel momento sullo spiazzo davanti allo chalet.

Gli agenti sfondarono la porta e quando entrarono si trovarono davanti ad una scena terribile : una nuvola di fumo rosso invadeva l’aria e, sul pavimento giaceva il corpo di David Roman con un pugnale conficcato nel petto…i ragazzi terrorizzati erano legati alle sedie…immobili.

Un poliziotto si avvicinò con cautela, sull’impugnatura dell’arma era scolpito un diavolo e…il disegnatore, ormai senza vita  era in un lago di sangue.

«Cosa è successo?», chiese ai bambini atterriti. «Si è suicidato?», continuò.

Federico si fece forza e, con  le lacrime agli occhi rispose:

«So che non mi crederete mai…ma l’ha ucciso Demon…io l’ho visto». Anche Matteo assentì in silenzio.

Nessuno credette alle parole dei ragazzi…ma loro sapevano che avevano detto la verità…l’ombra rossa era entrata e aveva colpito David nell’istante in cui stava per ammazzarli.

 Il loro eroe moriva con il suo creatore, ma li aveva salvati…non lo dimenticarono mai.
                                                                                                              FINE



 

martedì 22 luglio 2014

AFRICA MAGICA




    Luciana aprì gli occhi e si guardò intorno, la zanzariera bianca che ondeggiava sopra di lei le dava un senso di soffocamento, si girò ad osservare il suo compagno che dormiva ancora. Passò una mano sulla fronte per scostare i capelli appiccicati da un sottile velo di sudore, aveva la testa pesante, si era rigirata nel letto per ore prima di prendere sonno, nel momento del risveglio si rese conto che non avrebbe dovuto accettare quella vacanza nel continente nero.. . “Cosa ci faccio qui?”, si chiese alzandosi a fatica. Un insetto corse veloce sul pavimento, lei fece un salto indietro: aveva una specie di fobia a tutto ciò che si muoveva sul terreno, rettili, serpenti, perfino un’ innocua lucertolina le metteva addosso l’ansia.

“Perché non ce ne siamo andati in un hotel quattro stelle in Sardegna…”, brontolò infastidita.

Nonostante in camera ci fosse l’aria condizionata il suo corpo era sudato, si mise sotto la doccia e si lasciò scorrere l’acqua addosso provando piacere nel sentire la sferzata sulla pelle.

Ritemprata andò a svegliare Daniel: “Dai, sbrigati si sta facendo tardi…”.

Lui si stirò soddisfatto della bella dormita:

“Buon giorno, amore, dove andiamo oggi?”, chiese ancora con la voce impastata dal sonno.

Luciana fece finta di non sentire, non aveva voglia di rispondere che li aspettava la visita al villaggio poiché ne avrebbe volentieri fatto a meno.

Uscirono all’aria aperta, il cielo era incredibilmente azzurro solcato da nubi maestose che cambiavano forma in continuazione, il paesaggio aveva colori aspri e bruciati, c’era un senso di libertà e di ampiezza di respiro che conquistava. Luciana dovette ricredersi su ciò che aveva pensato di negativo sull’Africa: solo per ammirare quella natura maestosa valeva la pena di essere arrivati fin lì.

La vista della colazione su tavolate all’ombra di grandi teli bianchi le diede un senso di nausea: era troppo per i suoi gusti, i camerieri correvano indaffarati a servire la comitiva di europei.

“Guarda che meraviglia, andiamo a prenderci qualcosa”; esclamò entusiasta Daniel precipitandosi su quel ben di Dio . Lei mise qualcosa nel piatto: “Non ho molto appetito…”, borbottò con malavoglia. L’organizzatore comunicò che le jeep per la visita al villaggio erano pronte.

Poco dopo erano tutti in procinto di partire: le vetture, dopo aver attraversato una pianura color terracotta, dove gli spazi immensi sembravano quelli di un mondo sconosciuto, s’inoltrarono nella foresta. Luciana stava aggrappata al sedile e sobbalzava ad ogni rumore, la guida illustrava la zona che stavano percorrendo: la vegetazione folta, con le tonalità di verde più diverse, oscurava il cielo, il caldo era attutito dall’ombra delle foglie fitte e oscure.

Arrivarono al villaggio di capanne, donne e uomini seminudi si aggiravano fra le case e sembrava stessero aspettando proprio la carovana di turisti: infatti, non appena li videro, frotte di bambini vocianti si avventarono sui nuovi arrivati tendendo le piccole mani in cerca di qualcosa. Su uno spiazzo un gruppo di giovani si mise in cerchio per iniziare una danza folkloristica.  I componenti della comitiva commentavano divertiti, ma Luciana sentì una stretta al petto: osservava quella gente che si esibiva per i bianchi venuti a vederli come fenomeni di un mondo ancora da civilizzare, più povero ma non per questo meno dignitoso.

Trascinata da Daniel si fermò ad osservare lo spettacolo: al suono dei tamburi ragazzi e ragazze ballavano scuotendosi , il ritmo si faceva sempre più serrato e i danzatori si muovevano in preda ad un parossismo inarrestabile.

Un nero enorme che indossava una tunica arancio arabescata avanzò e, con un cenno della mano fermò lo spettacolo.

L’uomo avanzò e si diresse verso la guida, teneva in mano un cestino colmo di oggetti:

“Ci avrei scommesso la testa, cercherà di venderci qualcosa”, mormorò Luciana con sarcasmo.

“Lo stregone dice che oggi è un giorno particolare, vuole farvi dono di un talismano che vi porterà fortuna”, disse la guida rivolto al resto della comitiva.

Il grande uomo nero avanzò fra di loro e distribuì gli oggetti che teneva nel canestro di paglia, ognuno era diverso dall’altro, arrivato a Luciana le aprì il palmo della mano e vi depose un piccolo serpente di legno, lei si ritrasse spaventata:

“No!…non lo voglio!”, gridò isterica. Tutti la guardarono stupiti dall’eccesiva reazione.

Per tutta risposta lo stregone prese un laccio di cuoio, lo legò attorno all’amuleto e lo infilò al collo della donna che si irrigidì. La mano di Luciana toccò l’oggetto di legno, il suo sguardo si alzò sul viso segnato da righe bianche e rosse dell’uomo che le stava davanti, una strana pace entrò nel suo cuore: “Va bene…lo tengo”, mormorò senza saperlo.

Un sorriso sfiorò le labbra di quello strano enigmatico personaggio che sembrava appartenere a un altro mondo.

“Quanto costa?”, chiese Daniel mettendo la mano in tasca.

Il gigante scosse la testa in segno negativo. L’interprete si intromise: “Non vuole niente, oggi regala i portafortuna, è la festa del villaggio”, affermò.

“Se non lo vuoi lo puoi togliere”, disse Daniel a Luciana sapendo della sua avversione verso i rettili.

“No, lo tengo, non mi dà fastidio”, rispose lei inspiegabilmente tranquilla.

La giovane donna trascorse il resto della giornata a osservare il ciondolo che aveva al collo, senza curarsi di ciò che le accadeva attorno. Daniel la guardava preoccupato, non l’aveva mai vista così mansueta, di solito Luciana era una persona critica, quasi incontentabile, molto sensibile alla realtà che stava vivendo, se c’era qualcosa che non le piaceva non si faceva scrupoli a dirlo.  Alla sera, prima di entrare sotto la zanzariera bianca, si tolse il filo di cuoio dal collo e lo posò sul comodino.

Il giorno dopo c’era il safari, Luciana non voleva partecipare, era un’animalista contraria alla caccia e non poteva sopportare l’idea di inseguire degli animali che vivevano sovrani in una natura fatta per loro. Daniel insistette:

“ Puoi tenerti lontana, ma vieni, ci capita una sola volta di vedere delle bestie selvagge in libertà”, cercò di convincerla. Quante volte dovette insistere per strapparle un sì. Finalmente riuscì nel suo intento: per non dispiacergli lei acconsentì.

“Vengo, ma, se ti azzardi a sparare ti lascio per sempre”, minacciò. Il suo compagno capì che faceva sul serio.

La mattinata era limpida, il caldo soffocante, il cielo africano implacabilmente sereno, la comitiva partì, attraversarono posti in cui ci si sentiva piccolissimi davanti alla potenza del creato.

Si fermarono al campo tendato costruito per ospitare i partecipanti al safari:

“Io rimango qui”, affermò decisa Luciana.

“Dai, vieni con noi, rimarrai sulla jeep”, insistette ancora Daniel. Lei li seguì di malavoglia  e la carovana giunse sulla radura che costeggiava la foresta tropicale dalla quale avrebbero dovuto stanare le fiere.  I battitori si inoltrarono fra gli alberi . I loro tamburi rintronavano nella testa di Luciana che non ce la faceva più, era più forte di lei, non sopportava quel baccano e il pensiero che di lì a poco qualche povera bestia sarebbe stato il trofeo da portare a casa, per dire agli amici : “ho fatto un safari in Africa”, la faceva star male. Tentò di scendere ma l’autista glielo impedì:

“E’ pericoloso, signora”, disse, in inglese, il giovane keniota.

“Mi raccomando, non muoverti, guarderai la caccia grossa da lontano”, le raccomandò Daniel prima di andare con gli altri. La giovane era nervosa, senza volerlo accarezzò il ciondolo che le aveva donato lo stregone, quella mattina non aveva potuto fare a meno di indossarlo, una forza occulta l’aveva spinta a mettersi al collo quell’oggetto.

 Il sole era cocente, pur avendo il casco ed essendo riparata dalla capote della jeep, Luciana si stava sentendo male.

“Cercami un po’ d’ombra”, disse all’autista che era rimasto con lei. Il giovanotto l’osservò preoccupato:

“Devo avvicinarmi alla foresta”, mormorò titubante.

“Ti prego, non ce la faccio più a stare al sole”, supplicò lei.

Il ragazzo controvoglia si spostò e si mise sotto un albero che stendeva i suoi rami nello spiazzo.

“Va bene così?”, chiese premuroso.

“Grazie, sto molto meglio”, rispose la donna tirando un grosso respiro.

Si stese sul sedile e cercò di riposare. Intanto i battitori avevano smesso di picchiare sui tamburi, nel silenzio impressionante della savana gli uomini aspettavano di intravedere, attraverso la fitta vegetazione, le loro prede: un rumore, un bagliore, un fruscio di foglie acutizzava i loro sensi pronti ad intervenire.

Luciana intorpidita con gli occhi chiusi era in attesa di udire gli spari che avrebbero segnato la morte di qualche animale … sentì qualcosa che si muoveva, ma l’ignorò, non voleva aprire le palpebre, ma la sensazione che ci fosse una presenza estranea nell’abitacolo la indusse a guardarsi addosso. Ciò che vide la paralizzò: un piccolo serpente stava strisciando sui suoi pantaloni kaki. Terrorizzata, con gli occhi sbarrati non riusciva ad emettere alcun suono.

“Aiuto!…”, urlava dentro se stessa, ma dalla sua bocca serrata per l’orrore non uscì quel grido. Il serpentello saliva lentamente ma inesorabilmente: il bersaglio da colpire non l’aveva ancora raggiunto, era più in alto.

Il ragazzo seduto davanti non si era accorto di nulla, non voleva disturbare la signora bianca sdraiata, intanto Luciana, immobile, stava morendo di terrore, la sua vita era legata a quell’animale che aveva sempre odiato…il serpente saliva strisciando, un sibilo intermittente usciva dalla bocca aperta, pronta a mordere.

Il rumore di un ramo mosso da un uccello, fece voltare il giovane indigeno che s’ immobilizzò spaventato da ciò che stava vedendo: il serpente sul corpo della donna apparteneva ad una specie fra le più velenose e sapeva che se fosse arrivato a mordere non ci sarebbe stato più scampo per lei.

“Non muoverti, signora”, si raccomandò sottovoce, “adesso lo prendo…però stai ferma!”.

Il suo sguardo s’incrociò con quello della donna che implorava aiuto senza parlare.

Anche il ragazzo non sapeva come comportarsi, aveva paura che l’animale, sentendo rumore potesse scagliarsi e colpire, si avvicinò con cautela ma la bestia era ormai arrivata sul petto di Luciana, mancava pochissimo per arrivare al collo scoperto…lei aspettava il morso e la morte. Il serpente strisciò sull’amuleto dello stregone e da quel momento cambiò improvvisamente rotta: fuggì così velocemente che scomparve alla vista in pochi secondi.

 “Signora, sei salva, è scappato…è tutto finito!”, esclamò il negretto sorridendo felice; la luce dei suoi denti bianchissimi colpì Luciana che, più morta che viva, non si era ancora resa conto che il pericolo era sparito. Guardò incredula e constatò che sul suo corpo non c’era più quell’orribile minaccia. Si alzò a fatica, il suo respiro si fece più regolare, il colorito stava ritornando sul suo viso:

“Cosa è successo?”, chiese attonita.

“Il serpente è fuggito nella foresta…stai tranquilla, non tornerà più. Però non capisco cosa l’ha fatto andare via”, borbottò il ragazzo, poi il suo sguardo si diresse verso il ciondolo che pendeva dal collo di Luciana.

“Chi ti ha dato questo?”, chiese aggrottando la fronte.

“Lo stregone del villaggio”, balbettò la donna ancora sotto choc.

“…questo è magico e ti ha salvata…”, sussurrò mentre sul suo viso passava un’ombra; allungò una mano per toccarlo, ma la ritrasse subito dopo pronunciando qualche parola nella sua lingua. Luciana capì che stava vivendo un momento di magia…l’Africa nera, attraverso lo stregone, era intervenuta per salvarle la vita.

I cacciatori tornarono senza prede, lei raccontò la sua incredibile disavventura a Daniel che l’ascoltò stupefatto e quasi scettico. Il giovane autista confermò tutto:

“E’ stato un miracolo del nostro stregone”, continuava a ripetere, “quel serpente l’avrebbe uccisa”.

Luciana si abbandonò nelle braccia del suo uomo che la strinse a sé: “Non ti porterò più in Kenia, te lo giuro”, le sussurrò.

Sull’aereo che li riportava in patria c’era un signore di colore che si faceva notare per l’imponenza della sua corporatura. Luciana, per raggiungere il suo posto gli passò accanto, lo guardò in viso ed ebbe la sensazione di averlo già conosciuto:

“ Non ti sembra lo stregone?”, sussurrò a Daniel.

“Ma no, smettila, sei ancora sconvolta dall’avventura del serpente”, la rimbeccò lui.

L’aereo atterrò puntuale, Luciana si stava recando a ritirare i bagagli, quando  il gigante nero le si avvicinò:

“Sono contento di rivederla…in buona salute”, disse in perfetto italiano.

Lei si toccò l’amuleto che aveva al collo:

 “Grazie”, sussurrò come in trance.

“Anche questa è la magia dell’Africa…”, rispose lui sorridendo. Si allontanò seguito dallo sguardo attonito di Luciana.


                                                                                                                                                         FINE



 

 


sabato 21 giugno 2014

FINALE : "INSEGUIRE UN SOGNO"


 Quell’immagine che gli sorrideva dalla copertina gli sembrava un miraggio: “Come è possibile!”, pensò. Nel rivedere quel viso riprovò la medesima sensazione di quasi beatitudine che aveva provato davanti al quadro, ingigantita però dalla felicità di avere la certezza di poter presto rivedere la sua donna.

Nella redazione del giornale seppe che Serena l’aveva cercato più volte e questo gli diede la conferma che era lì, negli Stati Uniti, forse arrivata proprio per lui …ma il destino si era messo di mezzo e l’aveva fatto partire proprio nel momento in cui lei arrivava. Non se la sarebbe più fatta scappare: telefonò immediatamente alla rivista di moda ed ebbe il recapito del fotografo che aveva fatto la foto di copertina. Non lasciò passare nemmeno un minuto, si precipitò all’indirizzo dello studio pregustando il momento di incontrare Serena…quasi non poteva crederci, gli sembrava di vivere in un sogno e aveva paura di svegliarsi.

“Cerca Serena?”, gli chiese Raniero rispondendo alla domanda di quel tipo strano che gli aveva chiesto della signorina Molinari.

“Sì, mi dica dove posso trovarla..” Nella voce del giornalista c’era l’ansia repressa di chi non vuole perdere del tempo prezioso. Il fotografo, dopo una pausa , lo guardò e allungandogli una mano disse:

“Lei è Philip?” Stupito di essere stato riconosciuto lui annuì, “Come sa di me…?”, chiese  sempre più meravigliato.

“Serena mi ha raccontato della vostra storia a Milano”,  rispose Raniero , “sono felice di fare la sua conoscenza, venga , si accomodi…le devo spiegare tante cose.”

 Il fotografo l’accompagnò verso un divanetto:

 “Prego, si sieda.” Per Philip quel cerimoniale era una tortura, non gli interessava parlare con quell’uomo, voleva solo sapere se poteva rivedere Serena, al più presto. Senza accogliere l’invito restò in piedi :

 “Lei…dov’è?” , chiese bruscamente, “ non posso vederla?”

“La prego di accomodarsi”; insisté l’altro, “come le ho detto devo farle un lungo racconto…e ci vuole tempo”

 Pazientemente Raniero aspettò che Philip si sedesse.

Quando il fotografo cominciò a parlare, il giornalista quasi non riusciva a credere alle parole di quel tale che s’impicciava dei fatti suoi; lo guardava con astio, come se inventasse quello che stava raccontando, ma poi la lunga spiegazione della vicenda di Serena lo convinse che stava dicendo la verità. Tutto quello che allora gli era sembrato strano e misterioso diveniva improvvisamente chiaro, si spiegava il comportamento di Serena nell’ultima sera in cui erano stati insieme, si spiegavano gli strani maneggi attorno al quadro  quando l’aveva sorpresa in piedi sul letto mentre stava osservando la cornice…e l’espressione impaurita del suo viso!

Mentre Raniero cercava le parole per raccontare il legame con Sandro, stringeva i pugni per contenere la rabbia. Povera Serena! Perseguitata e ricattata…lasciata in balia di un mascalzone. Stava ad ascoltare attonito l’incredibile storia che quell’uomo gli stava raccontando, ammirato dal coraggio che Serena aveva dimostrato, lei così fragile eppure così forte da mettere nel sacco il suo persecutore; si commosse quando seppe che era arrivata negli Stati Uniti solo per lui, per cercare protezione e non aveva trovato nessuno…

“Ma…adesso dov’è?”, disse interrompendo il fotografo che ancora non aveva finito di raccontare. Raniero gli mostrò il giornale con la foto di Walter:

“E’ tornata in Italia per aiutare suo fratello…non so come andrà a finire ne’ quando tornerà!”, disse tristemente.

“Nooo!”, gridò Peter. “Non posso perderla un’altra volta!”

 Un oscuro destino lo seguiva impedendogli di riunirsi alla donna che amava, imprecando contro tutto e contro tutti uscì dallo studio fotografico e si ritrovò in strada pieno di rabbia senza sapere cosa fare. Non voleva rassegnarsi, ma doveva accettare la realtà e sperare che Serena ritornasse da lui.

+++

Il commissario Parisi sgranò gli occhi stupito: nel suo modesto e polveroso ufficio era entrato un raggio di sole. La ragazza che sedeva al di là della scrivania era straordinariamente bella, gli sembrava di averla già vista da qualche parte…ma non si ricordava dove. Ma l’importante era che  era lì, davanti a lui e lo fissava con quegli occhi grigioazzurri che lo facevano andare in confusione.

“Dunque, signorina, mi stava dicendo…?”, chiese ricomponendosi.

“Commissario, sono la sorella di Walter Molinari…vorrei sapere dov’è e…se posso vederlo.” Rispose Serena, era già la terza volta che ripeteva la domanda.

“Ah… sì…sì, il caso Rinaldi! Sa che suo fratello è imputato di rapina?”

Parisi disse questo controvoglia, avrebbe voluto dare notizie migliori a quella meraviglia della natura.

“Mi scusi, ma sono appena arrivata dagli Stati Uniti…ho letto su un giornale che potrebbe essere l’assassino di Marcello, ma sono sicura che non è stato lui! Mi dica qualcosa, la prego…”

Il commissario si alzò e le andò vicino:

 “Si tranquillizzi…non è stato lui! Proprio in questi giorni ho saputo la verità: Rinaldi è stato vittima di un regolamento di conti…era il suo fidanzato, vero?”, chiese .

 Con un cenno della testa Serena disse di sì, non riusciva nemmeno a parlare, la conferma dell’innocenza di Walter le aveva tolto un enorme peso dal cuore. Non le importava che suo fratello fosse ancora in prigione con l’accusa di rapina, le bastava sapere che non era un assassino, i diamanti erano stati restituiti e un buon avvocato avrebbe potuto fargli ridurre la pena.

Quando Serena uscì dal commissariato era quasi notte, e pioveva. La luce dei lampioni si rifletteva sulle pozzanghere della strada, il cielo era cupo , ma dentro di lei c’era il sereno. Ritornò in albergo e chiamò subito Raniero per dargli la bella notizia. “Torno presto”, gli gridò al telefono e quando l’altro gli disse che Philip era a New York e l’aveva cercata non voleva crederci. La gioia di poterlo rivedere era tanto grande che le mancava quasi il respiro: finalmente poteva ritrovare la felicità che aveva inseguito per tutto quel tempo. Decise di partire con il primo aereo disponibile, subito…voleva buttargli le braccia al collo e dirgli tutto il suo amore, ormai era libera: “mi merito un po’ di serenità” si disse. Il giorno dopo fece i bagagli in fretta, cercò immediatamente un avvocato  per la difesa di Walter, tutto filava liscio, chiuse le valige, ma mentre stava uscendo dalla camera sentì squillare il telefono: “Signorina Molinari, un signore desidera parlarle”. Era l’impiegato della reception. “Sto scendendo, gli dica di attendermi…” , rispose Serena contrariata.

Uscì dall’ascensore e si trovò davanti Sandro: il ciuffo biondo era sempre lo stesso, forse un po’ più arruffato, sul viso la solita espressione indisponente, questa volta accentuata dall’ira che traspariva dagli occhi cupi. Serena sentì gelarsi il sangue nelle vene.

“Ti ho trovata finalmente!”, esclamò lui con voce repressa, “ho un conto da saldare con te… devi pagare perché ho sofferto. Ero innamorato…ma adesso ti odio e non ti perdono. Non mi importa se andrò in galera, tanto la mia vita è rovinata”. Serena non si accorse nemmeno che nella mano di Sandro era comparsa un’arma, non ebbe il tempo di fuggire… il colpo secco risuonò nella grande hall: il corpo della ragazza cadde a terra senza un lamento.

 

Philip Randon ripercorreva via Brera dopo tanto tempo, nei suoi pensieri naturalmente c’era Serena. Come poteva dimenticarla ritrovandosi in quei luoghi? Dal giorno del suo ritorno dall’India erano passati parecchi mesi ed era appena arrivato in Italia per un nuovo incarico. Arrivato all’altezza della galleria d’arte che aveva segnato la sua vita fu preso da un’infinita tristezza. Quanti ricordi! Di proposito volle passare abbassando lo sguardo , ma questo non gli impedì di scorgere con la coda dell’occhio l’immagine che occupava una parte della piccola vetrina. Alzò gli occhi e rimase a fissare il quadro esposto per qualche secondo senza avere il coraggio di entrare: dietro il vetro c’era il viso di Serena con quell’espressione che l’aveva fatto innamorare. La sorpresa l’aveva inchiodato davanti alla porta:  era persecuzione quella che metteva sulla sua strada quel quadro! Si fece forza ed entrò: un giovane gli venne incontro. “Desidera?”, gli chiese . Philip non sapeva nemmeno cosa rispondere. Con un cenno della testa in direzione del dipinto riuscì a farfugliare: “Ecco…vorrei…..”. Intuendo il suo desiderio il ragazzo lo anticipò:
“Quel quadro?…non è in vendita…è solo l’insegna della nostra galleria”.
“Ma io…l’avevo già acquistato…tanto tempo fa”, disse Philip sempre più confuso.

“Come dice?”, il suo interlocutore lo guardava perplesso.

 In quel momento una voce femminile si fece sentire:

 “C’è qualcosa che non va ?”.

 La figura di una donna si stagliò sulla porta a vetri che dava sul retro. Il viso era in ombra ma a Philip cominciò a battere il cuore, quando la giovane donna avanzò e li raggiunse il grido che gli sfuggì era di immensa gioia: “Serena!” Anche lei spalancò gli occhi e gli corse incontro:  si ritrovarono stretti in un appassionato abbraccio. Philip le toccava i capelli, il viso, come impazzito di felicità: “Finalmente …, non posso crederci!… non è un sogno… Adesso non ti lascerò andare via…mai più ! come mai sei qui?…”, chiese guardandosi in giro.

Negli occhi chiari di Serena passò un’ombra:

“Sono viva per miracolo, ho passato dei giorni tremendi, non mi importava più di niente: tutto mi sembrava inutile…anche la vita. Poi lentamente sono uscita dall’incubo, ho rilevato la galleria e sono rimasta ad aspettarti…sapevo che prima o poi saresti ritornato, quel quadro, ritrovato per caso, è servito da richiamo. In quella tela c’è una strana magia che ti attira…”.

Philip la guardò dolcemente:

“Non è quel quadro che voglio…sei tu! E per sempre.

                                                                                                            FINE