Con i nervi tesi fino allo spasimo Rocco non staccava gli
occhi dal tavolo verde. Le mani svelte del croupier smistavano le fiches, poi
la roulette cominciò a girare …la pallina bianca si fermò sul numero sette.
L’uomo si alzò di scatto con un gesto di stizza, era pallido e con le borse
sotto gli occhi, si passò una mano sul viso sudato e si guardò intorno. Una
donna truccata vistosamente stava ridendo mentre accumulava i gettoni, Rocco le
lanciò uno sguardo disgustato e si allontanò con le mani in tasca. Uscì dal
Casino: erano le quattro del mattino e il cielo stava schiarendo; si sedette su
una panchina, aveva un macigno sullo stomaco che non accennava a scendere:
“Sono rovinato…ho distrutto tutto… ”, due grosse lacrime gli scesero lungo le
guance. Ripensò all’ultimo periodo della sua vita quando il demone del gioco si
era impossessato di lui. Aveva cominciato per divertimento, poi un giorno vinse
una somma che gli aveva fatto girare la testa e da quel momento era entrato nel
vortice che l’aveva portato sempre più in fondo. La magia perversa della
roulette l’aveva catturato, l’altalena della fortuna che ogni tanto gli
strizzava l’occhio, ma che spesso gli voltava le spalle, era diventata una
droga: non era capace di farne a meno. Così aveva prosciugato il conto in
banca, ipotecato la casa e si era messo nei pasticci con una banda di strozzini
che non gli lasciavano tregua. Il giorno prima il boss della banda gli aveva
dato l’ultimatum: doveva a saldare il debito; ma la somma che doveva rendere
era troppo alta per le sue possibilità. Si alzò a fatica e andò a prendere
l’auto; mentre guidava verso casa era disperato, non sapeva come affrontare sua
moglie, avrebbe preferito morire. Forse sarebbe stata la soluzione per
risolvere i suoi problemi.
Entrò con cautela per non svegliare Diana e la bambina, aprì
la porta della camera e si avvicinò al letto: intravide sua moglie che stava
dormendo serena, i capelli biondi sparsi sul cuscino: “Povera.…non se lo
merita”, pensò commosso. Si allontanò in punta di piedi, aprì un altro uscio e
la luce notturna dell’angioletto sopra il lettino gli permise di osservare il
visino di Marta addormentata. Aveva le gambine scoperte e lui si avvicinò per
tirare su le coperte finite in fondo al letto. Il sentimento che provò lo fece
star male, si intenerì fino alle lacrime…sempre cercando di non farsi sentire
prese un foglio di carta e scrisse
qualche parola. Come era entrato, silenziosamente uscì. Risalì in macchina
mentre stava albeggiando e si diresse sulla statale che portava al fiume,
pigiando sull’acceleratore.Aveva percorso solo qualche chilometro quando fu costretto a frenare bruscamente: in mezzo alla carreggiata c’era un grosso fagotto; si fermò a qualche centimetro dall’ingombro. Scese e vide con raccapriccio che si trattava di un uomo ferito che si lamentava debolmente: era una persona anziana, con i capelli bianchi macchiati di sangue. Rocco si tastò freneticamente nelle tasche in cerca del cellulare :”Devo chiamare un’ambulanza…questo poveretto è stato investito e abbandonato sull’asfalto!”. Ma per quanto cercasse, il telefonino non saltava fuori, frugò nell’abitacolo della vettura…niente. “Devo averlo lasciato sul tavolo della roulette”, si disse. Intanto il ferito si lamentava sempre più debolmente e la pozza di sangue si stava allargando, gli occhi dell’uomo adagiato per terra lo fissavano chiedendo aiuto. “Forza, ti porto all’ospedale, vedrai che ce la faremo”. Cercando di non fargli male lo sollevò e lo adagiò sul sedile dell’auto. Partì a tutta velocità verso il paese più vicino in cerca di un pronto soccorso. Mentre guidava notò che l’uomo adagiato sul sedile posteriore non si sentiva più. Si voltò un attimo e vide che respirava ancora:
“Devo sbrigarmi”, pensò, “ altrimenti questo non resiste per molto”.
Diana si svegliò
presto, con la mano tastò il cuscino accanto a sé e si accorse che il letto era
intatto: nessuno vi aveva dormito quella notte.
Come mai Rocco non era tornato? Aveva detto che avrebbe fatto
tardi per lavoro, ma non che passava la notte fuori casa. Lo chiamò , ma il
cellulare squillava a vuoto. Sempre più preoccupata si recò in soggiorno: sul
tavolino del salotto un foglio bianco attrasse la sua attenzione. Mentre
leggeva il cuore quasi si fermò: “Addio…sono un vigliacco, perdonami. Ti prego,
fai in modo che Marta non mi
dimentichi”. La donna si lasciò cadere sulla poltrona, senza forze: quelle
poche parole scritte in fretta parlavano
chiaro: erano di un uomo che aveva deciso di chiudere con la vita. Scoppiò in
un pianto dirotto: “Perché?…perché? …”, si chiedeva disperata.
In quell’istante nell’ufficio del commissario Alex Parisi squillò
il telefono. L’uomo alzò la cornetta annoiato: si cominciava una delle tante
giornate sempre piene di grane… una voce d’uomo, concitata, annunciò:
“Un’automobile brucia sotto il viadotto del cavalcavia sulla statale
quarantasette…”.
“Chi parla?”, esclamò
nervoso Alex, ma il suo interlocutore aveva già riagganciato. “Fanno sempre
così”, brontolò il commissario, “hanno paura di esporsi”. Si riavviò i pochi
capelli rimasti in un gesto abituale:“ Caputo!” urlò , “muoviti, usciamo, vai a prendere la macchina”.
L’agente speciale Loredana Caputo si alzò dalla sedia balzando in piedi:
“Va bene commissario”, rispose , poi brontolò a voce alta per farsi sentire, “ Che modi! Non sono sorda…”.-
Parisi rimase un attimo perplesso. “ Hai ragione, chiedo scusa, ma sembra che abbiano bisogno di noi urgentemente”,
La ragazza sorrise senza farsi scorgere poi sussurrò : “ Adesso va bene”.
La macchina della polizia partì sgommando ma, quando arrivò sul posto ormai la vettura sul greto del fiume, era diventata uno scheletro accartocciato. Parisi corse giù seguito dall’agente Caputo, guardarono dentro: al volante, c’era un uomo carbonizzato .Pezzi di carrozzeria erano sparsi ovunque: “Commissario” gridò la poliziotta, “siamo fortunati…guardi qui, la targa si è staccata…così possiamo sapere chi è il proprietario”. Il commissario brontolò qualcosa che aveva a che fare con quelli che andavano troppo veloci:
“Va bene…possiamo andare, chiamate l’ambulanza”. Si rimise in macchina e poco dopo era ancora nel suo ufficio pieno di scartoffie polverose.
La mattinata era già passata e i succhi gastrici avevano invaso il suo stomaco vuoto, si fece portare un panino che addentò svogliatamente; stava bevendo una birra quando entrò un agente: “Ispettore, una donna vuole denunciare la scomparsa del marito, la faccio passare?”. Le antenne del buon poliziotto si misero in movimento e rispose subito: “Certo, cosa aspetti?”.
Diana era pallida e visibilmente sconvolta, raccontò piangendo ciò che le era accaduto in quella giornata tremenda. Il commissario non la lasciò nemmeno finire, “Scusi un momento”, disse frettolosamente.
Uscì dalla stanza: “Avete controllato la targa della macchina bruciata?”, chiese al primo che gli si presentò davanti.
“Ecco, qui ci sono i dati”, rispose subito un poliziotto. Rientrò in ufficio e chiese con cautela:
“Suo marito si chiama Rocco Savini e ha una Ford del ’2003?”
“Sì”, rispose Diana spalancando gli occhi.
Parisi non sapeva come dirglielo: il corpo trovato nella vettura carbonizzata era presumibilmente quello di suo marito. Trovò il coraggio solo dopo averle fatto bere un bicchiere d’acqua.
(continua)