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domenica 22 dicembre 2013

IL REGALO DI NATALE


La città addobbata a festa mostrava il suo volto più fantasioso: le vetrine scintillanti, i festoni con le luci intermittenti mandavano lampi colorati, il grande albero costellato di palloncini multicolore completava lo scenario natalizio che ogni anno si ripeteva puntualmente.


 Giorgia camminava per le vie del centro fra l’andirivieni della gente carica di pacchetti di ogni genere. Il freddo pungente le entrava addosso facendola rabbrividire, in quel momento l’atmosfera festosa che la circondava le dava quasi fastidio, si sentiva esclusa da quella bonaria aria di famiglia che la circondava e che si intuiva da chi le passava accanto. Anche per lei era stato così, prima di conoscere Freddy il Natale le metteva addosso una gran voglia di essere buona, ma adesso dentro di lei c’era solo astio e veleno per quella donna, la moglie del suo grande amore che, solo perché portava la fede al dito, aveva tutti i diritti mentre per lei rimanevano solo le briciole… Le visite frettolose, i momenti d’amore rubati, le solite promesse mancate: «Chiederò il divorzio…dammi solo tempo… vedrai che tutto si risolverà presto…». Erano ormai tre anni che sentiva sempre le stesse parole, ogni volta sperava che lui si decidesse ad andarsene di casa, ma il tempo passava e tutto rimaneva nell’immobilità più assoluta. Lei non voleva perderlo per nessuna ragione al mondo, era disposta a fare di tutto pur di tenerlo legato a sé. Faceva finta di credere alle sue parole e continuava a mandare avanti quella storia perché non poteva fare a meno di lui. Ormai era diventata un’ossessione e, quando pensava all’altra aveva dentro di sé pulsioni di rabbia feroce nei suoi confronti, fino ad augurarsi di vederla morta, stava lentamente scivolando in uno stato mentale pericoloso.

 «Anche quest’anno è arrivato Natale», pensò amaramente, «e anche quest’anno dovrò starmene in casa a rimirare l’albero spento aspettando una sua telefonata».  Passò davanti all’insegna di un grande magazzino: sulla porta un Babbo Natale suonava mestamente un campanello attirando l’attenzione dei bambini con una filastrocca. Giorgia riuscì a cogliere lo sguardo malinconico dell’uomo sotto il travestimento, “poveraccio, anche lui deve pur mangiare…”, si disse. Una giovane donna bionda, molto elegante, che stava aprendo le porte a vetri dell’emporio le ricordò  Letizia, la sua rivale. Nella sua mente passò qualcosa di torbido che tentò di scacciare, ma insistente, tortuoso e perfido il pensiero si insinuò sempre più nei meandri del suo cervello ormai intento a pensare sempre la stessa cosa, fino a diventare un martellamento incontrollato. Il Babbo Natale e Letizia… Letizia e il Babbo Natale… Sapeva che tutti gli anni la moglie di Freddy si recava nel grande magazzino per acquistare i regali, quasi sempre l’antivigilia, accompagnata naturalmente dal marito e se… un killer nei panni di Santa Klaus l’avesse fatta fuori? Chi avrebbe riconosciuto l’assassino sotto la barba e i baffi candidi del buon vecchio che scampanellava sul marciapiede? Poteva essere un delitto perfetto e finalmente Freddy sarebbe stato tutto suo… Si vedeva già al braccio dell’architetto Martini come legittima sposa: un sogno che poteva diventare realtà se avesse messo a punto il suo disegno con le dovute cautele. La prima cosa da fare era cercare il killer. La sua testa lavorava a ritmo frenetico spronata dal pensiero criminale che l’aiutava a mettere a fuoco tutte le possibilità mentre si infilava nelle scale sotterranee della metropolitana. La sua attenzione fu attratta da un gruppo di uomini che sostavano bighellonando nei corridoi poco illuminati: erano tutti male in arnese, sporchi, vestiti male, con le facce tirate e gli occhi allucinati di chi ha fame. Forse erano drogati, o avanzi di galera o semplicemente poveracci senza una casa e soprattutto senza una soldo. “Se offro centomila Euro qualcuno di loro forse sarebbe disposto a togliere di mezzo quella maledetta”, pensò nella sua mente malata.. Quella somma era pressappoco tutto quello che possedeva anche grazie alla generosità di Freddy, ma non le importava nulla, dopo non avrebbe più avuto motivo di avere del denaro in banca. Diventare sua moglie voleva dire anche trasformarsi in una ricca signora, con una bella casa, un’automobile di lusso… insomma quello che aveva sempre sognato di essere. E…se ci avesse provato? Tentare non nuoce, dice il proverbio, se fosse andata buca…pazienza! Avrebbe cercato altrove. Naturalmente doveva fare tutto con molta circospezione tentando di assaggiare il terreno senza sbilanciarsi. La sera dopo, vincendo la paura, ottenebrata dalla sua voglia malsana, si recò nei pressi del gruppo: tutti la squadrarono sospettosi:
 «Cosa vuoi?», disse uno di loro, «hai bisogno della roba ?».
«No», rispose lei titubante, «vorrei parlare con te», indicò un tale con i capelli unti e la barba lunga, il suo aspetto trasandato l’aveva colpita.
«Ce l’hai con me?», rispose lui sorpreso, «cosa ti ho fatto?…non ne voglio sapere di una come te, lasciami stare», nella sua voce c’era una nota di paura, come se avvertisse qualche pericolo.
 «Vorrei incontrarti da solo, magari in un bar, cosa ne dici?», Giorgia ce la metteva tutta per essere persuasiva, ormai aveva imboccato quella strada e non voleva tornare indietro.
 La risata che seguì la fece sobbalzare: «Hai fatto colpo sulla signorina! dai Ivan, vai con lei, magari ci ricavi un po’ di grana», il resto del gruppo sghignazzava senza ritegno. Il ragazzo la guardò: «Mi stai prendendo in giro?», chiese con aria strafottente.
«Non sono mai stata così seria, vieni con me, cosa ti costa, non avrai paura, sono solo una donna che vuole proporti un affare. Dai, sbrigati che si sta facendo tardi !», disse lei puntandogli gli occhi addosso. L’altro guardò i suoi compagni come per avere l’approvazione: un coro di “Vai!” lo spinse ad accettare l’invito di quella ragazza, dopotutto che cosa ci rimetteva? 
Si avviarono verso un locale poco distante ed entrarono. Seduti ad un tavolo appartato discussero a lungo, Giorgia giudicava il soggetto con cautela, prima di sbilanciarsi volle sapere chi era, dal suo accento aveva intuito che poteva essere uno straniero, infatti lui le disse di essere venuto in Italia da poco perché nel suo paese non aveva nemmeno da mangiare, nei suoi occhi freddi vide la disperazione e capì che poteva proporgli “l’affare”
«Vorresti guadagnare centomila Euro?», gli chiese a bruciapelo. Il giovane alzò di botto la testa: «Stai scherzando?», disse eccitato. «Farei qualunque cosa per quella somma!»
«Anche uccidere?», domandò la donna guardandolo in faccia.
 Prima di rispondere l’altro esitò ma vide che lei non stava scherzando, c’era troppa determinazione nei suoi occhi. Tirò un respiro e rispose:
«L’ho già fatto e l’ho fatta franca, per questo sono qui. Quei soldi mi farebbero molto comodo, ma…», fece una pausa guardandosi in giro, «Dovrebbe essere una cosa pulita», disse a voce bassa. Giorgia si fermò un attimo: il suo piano stava prendendo forma e quasi aveva paura di continuare, ma ormai era andata troppo oltre: il suo odio per Letizia si ingigantiva sempre più dandole la forza di andare avanti nel suo piano criminoso.
«Vediamoci domani sera, lontano da qui, dimmi tu un posto sicuro, dove possiamo parlare senza essere visti da nessuno che ci conosce».
Ivan le diede un indirizzo e l’appuntamento fu fissato per il giorno dopo, alle diciotto. Uscirono uno dopo l’altro senza salutarsi. L’indomani Giorgia spiegò il suo piano con molta precisione: l’antivigilia di Natale, quando sapeva che Letizia si sarebbe recata a fare acquisti nel centro commerciale, Ivan avrebbe dovuto essere davanti all’entrata vestito da Babbo Natale, così imbacuccato, con barba e baffi bianchi, non l’avrebbe riconosciuto nessuno e sarebbe stato facile, nella confusione della folla natalizia sparare con una pistola con silenziatore alla signora senza destare sospetti, poi doveva immediatamente dileguarsi e confondersi fra la gente. Prima però, doveva conoscere bene la sua vittima, ogni giorno doveva recarsi nei pressi dell’abitazione di Freddy, spiare le abitudini della moglie: come si vestiva, con chi usciva… soprattutto non doveva mai perderla di vista per imprimersi nella mente la sua figura in modo da essere sicuro quando avrebbe dovuto colpire. Sembrava che il ragazzo fosse anche intelligente perché diede qualche prezioso suggerimento per mettere a punto il piano. «Da questo momento dovremo vederci solo a cosa fatta», disse Giorgia : «So che tutto si concluderà come voglio io!». Un sorriso cattivo comparve sulla sua bocca, salutò il killer non prima di avergli dato un acconto sulla somma pattuita.

In quei giorni rivide Freddy e i momenti d’amore furono bellissimi, non si era mai pentita di quello che aveva in progetto di fare, anzi, in cuor suo sapeva che fra pochissimo lui sarebbe stato solo suo e questo le ricacciava dentro l’eventuale rimorso.

Nel frattempo Ivan seguiva coscienziosamente la signora Martini, vedeva uscire quella bella donna sempre molto elegante e la seguiva senza farsi notare, ogni tanto vedeva anche il marito che l’accompagnava. Ormai aveva impresso nella memoria le loro figure, sapeva riconoscerle da lontano: lei bionda, snella, non molto alta; lui un tipo brizzolato che portava quasi sempre un cappotto blu. La signora indossava di solito una pelliccia scura, solo negli ultimi giorni era uscita con un visone bianco molto appariscente, in testa aveva un colbacco dello stesso pelo.
Mancava meno di una settimana a Natale, Giorgia anche senza volerlo era agitata, si avvicinava il giorno fatidico e aveva paura che qualche imprevisto le impedisse di compiere la sua vendetta.
 Di  solito Freddy, si faceva  vivo il giovedì, ma quel giorno di lui nessuna notizia, era sempre attaccata al telefono per non lasciarsi sfuggire un’eventuale chiamata; ormai era sera e non aveva più speranze, verso l’ora di cena il campanello squillò: un fattorino le consegnò una grande scatola legata da un  fiocco rosso: «Buon Natale!», le disse sorridendo il ragazzo..
 Quando finalmente Freddy arrivò gli buttò le braccia al collo:
«Grazie tesoro, mi hai fatto un regalo meraviglioso!», gli disse stringendosi al suo petto.
 Lui la baciò e Giorgia si accorse di essere schiava di quell’amore impossibile che le aveva fatto perdere la ragione.

Ivan, come pattuito, non si era più fatto vivo, i giorni passavano e Natale era vicino. Giorgia voleva sincerarsi che il rito degli acquisti fosse rimasto invariato, come tutti gli anni. Contattò Freddy con una scusa per farsi confermare il giorno e l’ora:
«Ci vediamo domani?», gli chiese al telefono sicura di una risposta negativa.
 Infatti, Freddy le rispose evasivamente:
 «Non so, devo accompagnare mia moglie al centro commerciale per le ultime compere, cercherò di uscire con una scusa dopo cena, non essere in collera con me, ti amo». Con sua grande sorpresa lei fu molto comprensiva: «Non importa, uscirò da sola, non ti preoccupare…anch’io ti amo», rispose con voce dolce.
«Bene!», pensò Giorgia, «tutto procede a gonfie vele. Ora devo cercare Ivan per essere certa che vada al suo appuntamento». Lo trovò nel gruppo di sbandati della metropolitana, sembrava molto sicuro di sé: «Tutto sotto controllo», le disse calmo, «ormai la conosco più di mia sorella, fidati! Ci vediamo dopo, quando sarà tutto fatto… al solito posto il giorno di Santo Stefano a mezzogiorno in punto. Mi raccomando la grana!». Nei suoi occhi brillava una luce sinistra.

 L’antivigilia di Natale era una giornata freddissima, la neve era caduta nella notte e le strade erano ricoperte da uno strato scivoloso di poltiglia sporca, Giorgia si svegliò e guardò fuori: il paesaggio poco invitante la indusse a ritornare sotto le coperte; quello era un giorno particolare, fra qualche ora si sarebbe compiuto il suo destino, preferiva rimanere in casa ad aspettare gli eventi. Non riuscì a stare a letto, si alzò per farsi un caffè, accese il televisore per avere una presenza in casa, si muoveva fra i mobili spostando qualcosa qua e là, era presa da una frenesia che le impediva di stare ferma.
Ogni tanto dava un’occhiata all’orologio, il tempo non passava mai…alla fine non ce la fece più e si accinse a vestirsi per uscire: meglio fuori…l’aria le avrebbe fatto bene! Si preparò con molta lentezza, studiando tutto quello che doveva mettersi, tanto per far passare i minuti; si coprì bene per affrontare la giornata rigida, cercò le chiavi di casa che dimenticava sempre nei posti più impossibili, in quel momento il suono del citofono la fece sobbalzare.
 «Chi è?», chiese innervosita.
«Aprimi, sono io!», la voce di Stefano le risuonò nelle orecchie .
 Come un automa schiacciò il pulsante e si sedette sul divano,  tutta vestita, senza sapere cosa fare.
 «Ivan l’ha già uccisa!», pensò credendo che Freddy venisse a darle la notizia della morte di Letizia . Cercò di calmare il cuore impazzito, si ricompose e quando aprì la porta il suo volto non tradiva nessuna emozione. Quello che vide la meravigliò, Freddy era sull’uscio con il sorriso sulle labbra:
«Sorpresa! Vedo che sei già vestita…dai, usciamo insieme, per una volta tanto anche per noi sarà Natale», disse allegramente.
Giorgia lo guardò senza capire:  «E…Letizia? Tutti gli anni esci all'antivigilia », chiese.
«Ha un po’ di febbre…è rimandato tutto a domani. Vieni, devo fare un salto ai grandi magazzini in centro, accompagnami…dopo torniamo qui». Le accarezzò dolcemente il volto: «Sai che sei bellissima?», le disse. Lei si guardò addosso, in effetti quella pelliccia le stava molto bene:
 «Lo so, è tutto merito tuo», rispose, ma nella sua voce c’era una nota di apprensione.
 Freddy colse la sua tensione: «C’è qualcosa che non va?», domandò preoccupato.
 «No… va tutto bene, ma vuoi proprio uscire?».
«Certo, con una signora così elegante ci faccio solo bella figura!», la prese sottobraccio e cercò di chiudere la porta, ma lei tornò dentro: «Vado a prendere gli occhiali scuri, il riverbero della neve mi dà fastidio». Lui la accompagnò dolcemente per le spalle e chiuse definitivamente l’uscio.

Quanta gente sotto i portici! A malapena si riusciva a passare, nella grande confusione Giorgia si sentiva stordita, era preoccupata per l’imprevisto che mandava a monte il suo piano, ma si fidava di Ivan, se non avesse visto Letizia avrebbe capito che doveva rimandare il piano…forse sarebbe riuscita anche a fargli un cenno d’intesa.
«Guarda, oggi ci sono due Babbi Natale!», disse Stefano.
 Mentre si avvicinavano all’ingresso Giorgia cercava di riconoscere sotto i baffoni bianchi il viso di Ivan. «Eccolo!», si disse: uno dei due aveva gli occhi chiari e la pelle più scura…era lui!
 Mentre si stava avvicinando, un uomo con un grande pacco sotto il braccio la urtò, lei si girò per protestare, in quell’istante un dolore lancinante la trapassò, cadde per terra sotto gli occhi atterriti di Freddy.
La bella pelliccia di visone bianco si sporcò di sangue: era il suo regalo di Natale, uguale a quello che aveva fatto una settimana prima a Letizia, le due donne che amava allo stesso modo e dalle quali non riusciva a separarsi.
 Il killer non poteva sbagliarsi: una donna che indossa un capo tanto vistoso e particolare non passa inosservata, così, con mano sicura aveva colpito mortalmente quella signora  col berretto di lana e gli occhiali scuri che si avvicinava accompagnata dal marito che portava il solito cappotto blu.

 Il corpo senza vita di Giorgia giaceva sul marciapiede, il capannello di curiosi si stava diradando in attesa dell’ambulanza, era rimasto solo un Babbo Natale, l’altro, quello con gli occhi chiari se ne era andato, inghiottito dalla folla.

FINE

mercoledì 18 dicembre 2013

FINE " L'ARMA DEL DELITTO"


Questa volta il commissario non aveva molto da fare, il colpevole della morte di Brandi si doveva cercare fra chi era sulla barca. A bordo, oltre a Roberto, Giada e Viola, c’erano un marinaio e lo skipper Salvatore. Il poliziotto li convocò uno per volta per un primo interrogatorio, ognuno di loro poteva essere l’assassino.
Tenne sotto torchio in special modo Salvatore, poiché la litigata furiosa fra lui e Brandi la notte precedente la scomparsa dell’industriale l’avevano sentita tutti.
«Quell’uomo non mi convince», disse all’agente speciale Loredana Caputo mentre stava esaminando i verbali degli interrogatori.
«Ha ragione, commissario, perché lo skipper  non vuole dire il motivo della rissa? .potrebbe essere quello il movente  dell’assassinio», concluse lei.
Parisi annuì in silenzio e gli venne alla mente l’ostinazione del giovanotto quando l’aveva sentito la prima volta:
«Mi può dire la ragione della lite?», questa domanda l’aveva già fatta una decina di volte e la risposta era stata sempre quella: “motivi personali”.
«Benedetto ragazzo, se non mi fa capire sono obbligato a metterla sotto accusa, in questo momento per me è il solo che ha un movente plausibile».
L’altro aveva alzato le spalle : «Faccia quello che crede, commissario, però sta prendendo un granchio, non sono stato io, e la verità verrà fuori, prima o poi», aveva affermato tranquillamente.
Dagli altri ospiti dello yacht non riuscì a cavare nulla, ma qualche giorno dopo un nuovo elemento d’accusa si delineò nel corso delle indagini e così, Salvatore venne richiamato dalla polizia.
 Si accorse che non tirava un buon vento dallo sguardo del commissario:
 «Questo di chi è?», chiese serio Parisi mostrando un oggetto che teneva in mano.
«E’ il mio pugnale da pesca subacquea», rispose subito l’altro.
«Lo sa che è con questo che probabilmente Brandi è stato ucciso? Ci sono ancora tracce di sangue», gli sbatté in faccia il commissario.
Salvatore rimase fermo sulla sedia per qualche secondo: «Non ne so nulla», disse a bassa voce.
«Lo mando in laboratorio e, se il DNA corrisponde con quello della vittima, sono costretto ad arrestarla», il tono era di quelli che non ammettono replica.
Salvatore si alzò: «Ora posso andare?», chiese con aria leggermente strafottente.
«Si tenga a disposizione», affermò Parisi, «c’è ancora qualcosa che devo comunicarle: la signora Viola Brandi ha dichiarato che la sera prima eravate insieme e che il marito vi ha sorpresi, e questo è il motivo della litigata…lei cosa ne dice?».
«Se l’ha affermato la signora ora posso dire che è la verità, ma io mi dichiaro innocente, commissario, deve credermi», disse il giovane guardandolo dritto negli occhi..
Parisi scosse la testa: «Mi auguro che quello che dice sia vero. Aspettiamo il risultato delle analisi, poi giudicheremo», concluse.
Qualche tempo dopo una camionetta della Polizia si fermò davanti alla casa dello skipper, scesero due agenti per arrestare Salvatore: il sangue sulla lama era quello dell’industriale ucciso.
Il giovanotto chiese di fare una telefonata:
 «Viola, mi stanno portando in prigione, ma io non ho ammazzato tuo marito», disse e, con uno scatto nervoso chiuse il cellulare.
Salì con gli agenti ammanettato: l’assassino era stato preso!.
 Il rumore mediatico sull’assassinio in alto mare fu enorme, anche perché la vittima era un personaggio importante nel mondo degli affari, ogni fonte d’informazione si affrettò a divulgare la notizia mettendo in evidenza la rapidità della risoluzione. Anche Parisi non si sarebbe mai aspettato di chiudere il caso in così  breve tempo, di solito, quando tutto coincide in modo facile c’è stato qualche particolare che non è stato valutato nel modo giusto. Questo il commissario lo sapeva, da buon pignolo ripassò con pazienza certosina  tutto ciò che sapeva sul delitto Brandi. Non ci dormiva di notte, aspettava la lampadina che s’illuminasse improvvisamente nel suo cervello e gli desse la risposta che cercava.
E la luce si accese in una notte insonne:
 «Se Salvatore ha ucciso Brandi, perché non ha eliminato dell’arma del delitto? Perché non ha buttato a mare anche il pugnale?» si chiese il commissario, e si diede una risposta che poteva essere plausibile: «perché non è lui l’assassino, qualcuno l’ha incastrato e ha fatto in modo che tutti gli indizi cadessero su di lui».
 Riaprì immediatamente le indagini e chiese di mettere sotto controllo il telefono di tutti quelli che erano a bordo quel giorno. Il commissario aveva già un sospetto ma voleva esserne sicuro.
 Quando ascoltò una delle tante telefonate di Viola a Roberto ne ebbe la certezza:
 «Ciao amore…siamo sulla strada buona, ci manca qualche particolare ma ormai sono l’erede universale di Marino, mi sono fatta intestare un bel gruzzolo in banca e, quando avrò chiuso il conto potremo partire. Nessuno ci prenderà più, ormai il colpevole è in cella, poverino mi dispiace ma è stato proprio un ingenuo. Ho usato il suo pugnale poi l’ho rimesso dov’era, sono stata bravissima. A presto amore», quando Viola staccò la conversazione non sapeva che avrebbe visto il sole dietro le sbarre per molti anni e non sotto una palma nella spiaggia di Santo Domingo.
«Hai sentito Caputo? Mai fidarsi delle donne, Salvatore credeva di aver ritrovato la passione di un tempo….ma come si sbagliava!»
Loredana guardò il suo capo di traverso:
«Non tutte sono come quella!», brontolò sottovoce.
Il commissario sorrise : «Lo so, Caputo…tu sei di un’altra razza!»
                                                                                                                                            FINE
 

 

martedì 19 novembre 2013

L'ARMA DEL DELITTO


IL  mare, increspato dalla leggera brezza luccicava sotto il sole, appoggiato al parapetto di poppa,  Marino Brandi fissava l’orizzonte e pensava: “quest’anno chiederò a Roberto e Giada di venire in  crociera con noi, sono divertenti, devo dirlo a Viola, se a lei va bene, telefono subito per vedere se sono liberi”.
 La moglie stava prendendo la tintarella sul ponte:
«Che ne dici di invitare i Montanari?», chiese Marino.
Lei, sorpresa lo guardò:
 «OK , anzi avevo intenzione di proportelo, sono simpatici», rispose.
 Viola era una bella donna, molto più giovane del marito, quando l’aveva sposato era un’attricetta e lui un ricco industriale, da parte sua non si poteva certo parlare d’amore, amava fare la bella vita: indossare vestiti griffati e entrare nel  mondo festaiolo dei vips, era ciò che aveva sempre sognato.  Lui invece aveva perso la testa per quella magnifica bionda , non faceva nulla senza di lei,  ogni decisione la sottoponeva al suo giudizio.
 «C’è soltanto un contrattempo», continuò Brandi, «dovrei ingaggiare un nuovo skipper, Gennaro si è infortunato e non può venire, oggi dovrei contattare un tipo che mi ha proposto l’agenzia», disse  sdraiandosi al sole accanto alla moglie.
Il giovanotto che si presentò aveva tutte le credenziali per essere assunto: aveva referenze ineccepibili ed era anche di bella presenza, alto muscoloso, con una faccia ed un sorriso che si accaparravano la simpatia al primo contatto.
«Per me va bene», disse Brandi dopo il colloquio, «benvenuto a bordo. Aspetti, vado a chiamare mia moglie», concluse tendendogli la mano.
 Viola, non appena si trovò davanti allo skipper sussultò e la medesima reazione l’ebbe anche il nuovo venuto. Entrambi non poterono fare a meno di esclamare i rispettivi nomi con  stupore: «Viola!», esclamò lui. «Salvatore!»,  rispose lei sorpresa.
Marino Brandi, li guardò : «Vi conoscete?».
La moglie tardò un secondo a rispondere, poi riluttante confessò che tanti anni prima avevano avuto una storia sentimentale: «Sono quasi dieci anni che non ci frequentiamo», l’interruppe il giovanotto, «e non nego che mi ha fatto piacere rivederla, però adesso è tutto finito», concluse rivolto all’industriale con il timore che la loro conoscenza  potesse compromettere la sua assunzione. 
«Capisco, ma stia tranquillo,  questo non cambia la decisione di assumerla. Anzi, se vuole può prendere il comando dello yacht da adesso», concluse mettendo un braccio attorno alle spalle di Viola in segno di possesso. Lei lo guardò sorridendo : «Ormai ho fatto la mia scelta», gli disse rassicurante.
Pochi giorni dopo salparono per una piccola crociera nelle isole greche. A bordo salirono anche Giada e Roberto, e sulla barca si instaurò immediatamente l’allegra atmosfera vacanziera dei ricchi, a spasso sull’acqua limpida del Mar Egeo. Lunghe nuotate al largo, dove il mare sembra da bere, cene nelle trattorie greche a base di pesce appena pescato, di insalate fresche… e quel  profumo del basilico che aleggia per l’aria nei vicoli che ti entra nel naso e nell’anima, e allora respiri e ti senti bene.
La convivenza con la coppia di amici sembrava procedere nel migliore di modi, Giada vivace, sempre in vena di chiacchierare, non era molto bella, ma la simpatia sopperiva alla mancanza di qualche centimetro di circonferenza del seno. Anche Roberto era un tipo brillante, sportivo e buon nuotatore, si divertiva a fare il bagno al largo e a raccontare barzellette nelle serate in compagnia.. Fra i due non c’era molto feeling,  quando lei diceva qualcosa lui si impegnava a dire l’esatto contrario, una delle ragioni dei loro battibecchi era la forte predisposizione di Roberto verso l’universo femminile, se poteva non se ne lasciava scappare una!  Però in fin dei conti erano buoni compagni di viaggio e Marino Brandi si stava divertendo, aveva bisogno di rilassarsi e quel tour  era l’ideale per riprendere il tono perso in  un anno di lavoro.
 Erano nei pressi di Mykonos, una delle isole più belle della Grecia, mentre stavano entrando nell’anfiteatro del porto, sotto la collina, la visione delle case bianchissime li abbagliò,  Marino strinse a sé Viola: «Guarda che paesaggio, ti fa mancare il respiro, tanto è  bello».
Lei non rispose, era intenta ad osservare Salvatore, il nuovo skipper che stava dando gli ordini per entrare in porto. Anche lui le lanciò un’occhiata, ma poi riprese il timone voltandole le spalle.
Attraccarono e scesero per ammirare quegli edifici candidi con le finestre colorate, le stradine piastrellate di calce, le chiesette con i tetti rossi che formavano un mix di colori e contrasti sensazionali.
Quella sera finirono in uno dei numerosi locali notturni a ballare. Viola dopo essersi scatenata in pista, andò al bar a bere: si era appena seduta sullo sgabello quando sentì il tocco di una mano sulla spalla, si voltò:  «Salvatore, come mai qui?», chiese.
«Perché, non è permesso a un dipendente frequentare gli stessi locali dei padroni?», ribatté lui secco.
«Non dire sciocchezze, mi fa piacere vederti», rispose lei sorridendo.
Lo sguardo invitante della giovane donna  indusse il giovanotto a chiederle di uscire in giardino:
 «Qui fa caldo, andiamo fuori?».
Viola lo seguì cercando di passare inosservata agli occhi del marito. Nel cielo limpido si evidenziavano le costellazioni, Salvatore si avvicinò:
«Guarda lassù, quella è l’Orsa Maggiore», affermò puntando il dito.
«Non riesco a vederla», rispose lei, lui le cinse le spalle e le prese un braccio. In quell’attimo Viola si voltò e le due bocche vicinissime si incontrarono.
«Non ti ho mai dimenticata», sussurrò il giovane, «vieni in cabina da me questa notte», disse con la voce rauca . Viola si lasciò andare, lo baciò e gli promise: «Aspettami».
 Riuscì a scappare dopo che Marino si era addormentato, sapeva che aveva il sonno pesante, e che non si sarebbe svegliato fino alla mattina dopo. Fece l’amore con Salvatore con la passione di un tempo.  Tornò accanto a Marino qualche ora dopo , si coricò con cautela e si addormentò: l’aveva fatta franca, non si era accorto di niente!
 Il giorno dopo decisero di andare a fare pesca subacquea, partirono attrezzati e si fermarono in un punto buono per i sub: l’acqua cristallina invitava ad entrare.
«Vieni anche tu, Salvatore?», propose Roberto 
«Perché no!», il giovanotto dopo qualche secondo era già pronto con bombola e boccaglio: «Andiamo».
I due uomini si immersero e scandagliarono il fondo, una grossa cernia avanzò verso lo skipper. Il giovanotto sfilò il pugnale dalla cintola e la trafisse; risalì trionfante con il pesce infilato nella lama, il corpo statuario del giovane, cosparso di goccioline, scintillava sotto i raggi del sole: sembrava un dio greco. Viola non seppe trattenere un moto di ammirazione; scambiò con lui uno sguardo d’intesa che voleva dire: “Ci vediamo stanotte”.
Ma non andò liscia come la volta precedente, Marino, che non aveva digerito proprio la cernia ai ferri, si alzò e la cercò nel letto.
 «Dove sei,  Viola?», chiamò più volte, andò nel corridoio. Lo spazio era esiguo, sentì la voce di Viola provenire dalla cabina  di Salvatore; aprì la porta con un sol colpo e vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere: i due abbracciati nella cuccetta in atteggiamento inequivocabile.
«Non credevo che arrivassi a tanto, sei rimasta quella che eri: una puttana!», esclamò furibondo. Poi si diresse verso l’uomo con l’intenzione di colpirlo, ma l’altro più giovane si scansò e Marino cadde a terra. Si rialzò dolorante: «Tu te ne devi andare immediatamente!», urlò verso Salvatore.
Questi a sua volta lo minacciò : «Non hai capito che sei un vecchio pieno di soldi e che prima o poi dovrai mollare Viola?», la sua voce era roca per l’ira.
Marino non ebbe nemmeno la forza di replicare, nel suo sguardo perso nel vuoto si leggeva la delusione, il dolore, l’amarezza del tradimento, si accorgeva in quel momento che sua moglie non l’aveva mai amato, si era illuso di poter contare qualcosa per lei e invece l’aveva trovata nelle  braccia di un altro!
Si voltò verso Viola , la guardò dritto negli occhi e la schiaffeggiò, voltò le spalle e uscì dalla cabina,  andò sul ponte, si appoggiò al parapetto e fissò il mare scuro.
Viola cercò di seguirlo, ma Salvatore la trattenne:
«Non ti preoccupare…gli passerà, domani attracchiamo al porto più vicino e me ne vado, in fin dei conti ha ragione lui, ma appena ti ho vista è stato più forte di me….non ti avevo mai dimenticata!»
«No, lasciami andare !…», gridò lei, uscì di corsa e andò verso la sua cabina sperando di trovare Marino, visto che non c’era si recò sul ponte . La sagoma del marito che guardava l’orizzonte, stagliata sul cielo illuminato dalla luna era il segno di un uomo disperato.  
Lei tornò in cabina e si ficcò nel letto… il mattino dopo si svegliò di soprassalto, qualcuno stava bussando: Salvatore entrò spalancando la porta:
«Un peschereccio ha trovato un corpo in mare! Dov’è tuo marito?», chiese osservando il posto vuoto accanto a Viola.
«Non è tornato a letto stanotte, sarà al bar a bere», rispose assonnata.
Salvatore scosse la testa: «Non c’è nessuno al bar…..».
Viola cambiò espressione: «Mio Dio, spero che non sia lui», mormorò.
Purtroppo quel cadavere in mare era proprio quello dell’industriale Marino Brandi, trafitto da diverse pugnalate. La crociera era terminata tragicamente, ritornarono alla base e il caso passò nelle mani dell’ispettore di polizia Parisi che cominciò subito le indagini.

(Continua)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 1 novembre 2013

FINE DI " C'E' UN CADAVERE...."


Dopo aver atteso una settimana senza notizie dello scomparso, Parisi incaricò la Caputo di iniziare le indagini; con la scrupolosa caparbietà che la distingueva la poliziotta interrogò tutti, nell’ambiente familiare e in quello scolastico, e arrivò alla conclusione che il cadavere visto da Pablito aveva molte probabilità di essere quello del professor Ferrari.
Parisi aveva molta stima della sua collaboratrice e, quando c’erano casi complicati gli piaceva discuterne con lei e insieme decidere sulla pista da seguire.
«Commissario, ho sentito delle voci su una relazione fra la moglie del professore e l’amico di casa, quel Giorgio, l’avvocato, quello che aveva visto Ferrari per l’ultima volta. Potrebbe essere coinvolto…cosa ne dice?»
«Non hai tutti i torti», acconsentì  lui, « fallo venire, vorrei conoscere e  fare quattro chiacchiere con quel tipo»,
  Quando l’avvocato  Giorgio  Mariani entrò nell’ufficio di Parisi, questi si rese conto che non era difficile per una donna prendere una sbandata per quel tipo. Alto, bruno, ben conservato, abbronzato: un uomo affascinante, con una parlantina travolgente.
Dopo mezz’ora di domande e risposte, Parisi era ancora incerto se considerarlo invischiato in un delitto oppure lasciarlo andare. A pensarci bene aveva le mani legate: avrebbe potuto essere lui il colpevole, c’era il movente sentimentale, senza contare che Laura era ricca di famiglia e sposandola si sarebbe messo a posto per sempre. Ma come poteva accusarlo se non esisteva il cadavere?
«Può andare…ma si tenga a disposizione», concluse di malavoglia.
L’avvocato se ne andò in fretta, quasi senza salutare. Il commissario lo seguì con lo sguardo e scosse la testa: era stato un interrogatorio inutile e inconcludente.
Sempre più testardo Parisi fece indagini anche al Liceo dove insegnava Ferrari, doveva frugare nella vita del professore per cercare di capire meglio la figura di quell’uomo.
Anche qui scoprì cose interessanti: molti studenti non lo potevano soffrire, era il classico professore carogna che si fa odiare, la sua scomparsa aveva rallegrato parecchi ragazzi con i voti sotto la sufficienza. Purtroppo c’era anche qualcosa di più: Ferrari non era una bella persona, aveva un lato oscuro che non lasciava trapelare  ma che il commissario stava lentamente scoprendo. Da voci fra i giovani seppe che aveva anche l’abitudine di fare avances alle ragazze, anzi con qualcuna aveva avuto dei rapporti amorosi, il quadro che si stava delineando era squallido.
Ma per il commissario quel caso stava diventando un incubo, tutto quello che scopriva non conduceva a niente: c’erano buoni moventi, ma non c’era il corpo, né vivo, né morto.
Durante le indagini l’aveva colpito un ragazzo: Mattia, figlio del medico condotto che, quando parlava del professor Ferrari lo faceva con un odio tale da impressionare:
«Ha rovinato la mia ragazza» , gli  aveva detto con una voce tagliente, «nessuno ha avuto il coraggio di denunciarlo, ma tutti sapevano che era un depravato, ha fatto bene a sparire».
 Sparire…era partito per ragioni che non si conoscevano?...era stato ucciso dalla coppia di amanti ? …o da qualcuno che lo odiava ? Il poliziotto indagava a vuoto senza poter accusare nessuno. Il tempo passava, si stavano scoprendo delle verità scomode, degli scheletri nascosti nell’armadio, ma tutto rimaneva al punto di partenza; finché stremato, Parisi si mise il cuore in pace e archiviò l’inchiesta; il professore se n’era andato per i fatti suoi e Pablito aveva avuto una visione, all’alba di quel giorno in cui credeva di aver visto un morto sotto un lampione.
Alex Parisi riprese a essere il custode dell’ordine pubblico della sua città, ma  riprese anche le buone abitudini, gli piaceva andare a pescare nel fiume, il tempo libero era poco, ma quando c’era una domenica di sole, prendeva tutto l’armamentario per la pesca, si metteva alla mattina presto in riva al fiume, in attesa paziente che qualche pesce abboccasse all’amo.
In quei giorni c’era stata una piena, poi era sbucato il sole, era domenica e il commissario se ne andò al fiume. Era fermo già da un po’ quando si accorse che un mucchio di detriti, portato dalla corrente, si era posato poco distante da lui, fra le varie cose trasportate dall’acqua c’era anche una grossa vanga, appena la vide la deformazione professionale ebbe il sopravvento: rivisse in un flash-back una scenetta di qualche giorno prima nel negozio di ferramenta dove era entrato a comperare una pinza. Stava pagando alla cassa quando entrò il medico condotto:
«Buongiorno dottore», lo salutò cordialmente il proprietario del negozio, «è andata bene la vanga?».
«Quale vanga?», aveva risposto il dottore.
«Quella che ho dato a Mattia, sarà un mese fa».
«Non so, probabilmente sì, forse aveva qualcosa da fare che non mi ha detto. Purtroppo con il mio lavoro sono un papà poco presente».
Il commissario, senza volerlo, aveva ascoltato la conversazione non dandole importanza, ma ora stava collegando il tutto con quella vanga spuntata dal fiume.
«Eh, no! adesso voglio andare a fondo, ricomincio da capo», si disse.
 La sera stessa chiamò il suo braccio destro Caputo:
«Domani vai a prendere Mattia, il figlio del dottore, e me lo porti in commissariato», ordinò.
Mattia entrò con fare strafottente, si sedette sulla sedia davanti a Parisi e lo sfidò con lo sguardo:
«Io non c’entro nulla con quell’arnese, di che cosa mi accusa?».
«Forse hai ragione, ma qualcosa mi dice che tu con quel coso …magari hai sotterrato un morto», azzardò il commissario.
 «Lei è matto, non capisco dove vuole arrivare», urlò il ragazzo.
«Allora, sai cosa ti dico? Farò una ricerca nella tenuta agricola di tuo padre, là c’è un bel bosco, che potrebbe essere il posto ideale».
Mattia ebbe un sussulto:
«Faccia quello che vuole commissario… buona fortuna!», esclamò, «adesso posso andare?»
« Vai …mi auguro che tu dica la verità», mormorò Parisi mentre il ragazzo se ne stava andando.
La notte stessa l’agente speciale Caputo, e il commissario, si misero di guardia, davanti alla villa del dottore in attesa di Mattia: Parisi era convinto che, se colpevole, il ragazzo si sarebbe precipitato a dissotterrare ciò che aveva interrato: il corpo del
professore.
 Al contrario, se non fosse stato lui,  il mistero del cadavere scomparso non sarebbe mai stato svelato.  Ma il commissario Parisi, da buon pescatore, aveva gettato l’amo e il pesciolino aveva abboccato. Infatti, dopo mezzanotte, un’auto si fermò davanti al cancello della villa, Mattia uscì dalla casa e s’infilò nella vettura che partì lentamente, per non fare rumore.
 L’auto nera guidata dall’agente Caputo l’inseguì  badando a non farsi notare,   presero  la strada che conduceva alla tenuta agricola. Qui la macchina che stavano seguendo si fermò,  scese , Mattia che reggeva una grossa vanga  e un amico.
 «Ecco, ci siamo…attenta Caputo, scendiamo e seguiamoli», sussurrò.
Abituati a pedinare usarono tutte le tecniche per non farsi scorgere. I due ragazzi si inoltrarono nel boschetto, dopo qualche minuto si fermarono sotto un grande albero, si misero a scavare.
«Adesso! Andiamo…», ordinò il commissario saltando fuori da un cespuglio, « siete in arresto!»,  intimò.
Mattia e l’amico si voltarono spaventati, si guardarono in faccia:
«Ci hanno fregato!...non c’è più niente da fare».
Rassegnati i due giovani non opposero resistenza, buttata la vanga da un lato si consegnarono.
Al buio non si vedeva, ma Mattia stava piangendo:
«Se l’era cercata il professor Ferrari ! Non poteva continuare a vivere. L’abbiamo fatto insieme…gli abbiamo dato un colpo in  testa mentre stava andando per il viale dei frati,  poi ci siamo dati da fare per far sparire il cadavere sperando di passarla liscia», sussurrò  indicando l’amico, «anche la sua ragazza è stata violentata da quel porco»,  chinando la testa porse i polsi per le manette
Il commissario lo guardò quasi con benevolenza, di solito era duro con chi arrestava, ma in quel momento non ce la faceva:
« L’omicidio è un grave reato, ma in questo caso avrete molte attenuanti a vostro favore, ne sono certo», rispose aiutando i due ragazzi a salire nella vettura.
 Si mise accanto all’agente Caputo, sbatté la portiera e disse: «Andiamo».

Pablito aveva detto la verità: all’alba di quella mattina, c’era un cadavere nel viale del convento.

martedì 22 ottobre 2013

C'E' UN CADAVERE SUL VIALE DEL CONVENTO


 Erano le prime luci dell’alba, il ragazzo correva sul viale del convento dei frati, i lampioni ancora accesi illuminavano fiocamente la strada.
 Pablito, come ogni mattina, andava all’Abbazia per aiutare i monaci a fare il pane; era abituato ad alzarsi presto,  ma quel giorno la sveglia l’aveva tradito,  sapeva che frate Gerardo l’avrebbe sgridato perciò ce la metteva tutta per recuperare il ritardo. Passando sotto il penultimo lampione vide qualcosa di scuro, man mano che si avvicinava la sagoma prendeva forma: era un uomo sdraiato per terra. «Il solito ubriacone», pensò. Arrivò all’altezza del corpo e si chinò a osservarlo, si ritrasse inorridito: non era ubriaco,  era morto!  il sangue raggrumato sul selciato aveva formato un’orribile chiazza scura. Era un uomo di circa cinquant’anni, robusto, i capelli radi e grigi, sul viso aveva la maschera della paura: gli occhi spalancati e vitrei sembrava fissassero un punto sul cielo che si stava schiarendo.
Pablito rimase a fissare il corpo senza vita come inebetito, in quel momento udì il rumore di un’auto, cominciò a correre come una lepre inseguita, giunse al convento ansante e stravolto:
«A quest’ora ti fai vivo? Ho già infornato il pane, se domani arrivi ancora in ritardo lo dico a tua madre, ci penserà lei a punirti», brontolò frate Gerardo senza nemmeno voltarsi. Il ragazzo si era seduto su una panca e non riusciva a respirare, il frate si girò e rimase colpito dall’aspetto  del ragazzo:
«Cosa ti succede? hai visto il demonio?».
Pablito non aveva più forze, cercò di riprendersi, poi la voce strozzata gli uscì dalla gola:
«Ho visto un morto per terra, sul viale…», riuscì infine a parlare, tremando.
Il religioso lo scosse per le spalle:
«Cosa stai dicendo? Dov’era? Chi era?», l’incalzare delle domande mandò ancora di più in confusione il giovane cileno.
«E’  là….sotto il lampione, ha  la testa spaccata….è  pieno di sangue».
 Preoccupato frate Gerardo si avvicinò:
«Andiamo dal priore, dobbiamo dirglielo, poi lui prenderà una decisione», sentenziò.
In tanti anni l’abate Francesco non aveva mai vissuto una simile esperienza:
 «Cosa possiamo fare noi, poveri frati, chiamiamo subito la polizia !», esclamò agitato.
Dopo qualche minuto l’agente del centralino del commissariato accolse l’accorato appello del priore  :
 «Venite subito, c’è un cadavere nel viale del convento».
Parisi si era da poco seduto alla scrivania e stava leggendo il quotidiano locale, Loredana  Caputo entrò senza bussare:
«Commissario, dobbiamo andare, ha chiamato il convento dei frati, penso che ci sia un grosso problema da risolvere», e brevemente comunicò quel poco che sapeva.
Parisi ripiegò il giornale e alzò lo sguardo sulla poliziotta:
«Vai tu, Caputo con un paio di agenti della Mobile, sto aspettando una telefonata», mentì. Quella mattina si era alzato di malumore, aveva avuto una notte agitata : il fritto di pesce mangiato in trattoria la sera prima gli era rimasto sullo stomaco.
Loredana rassegnata eseguì l’ordine.
La camionetta arrivò sgommando sul posto, gli uomini si precipitarono fuori:
«Qui non c’è niente», disse uno di loro.
«Perlustriamo la zona, magari abbiamo capito male», comandò l’agente speciale Caputo guardandosi intorno.
 Ma il risultato della ricerca fu che del cadavere non c’era nessuna traccia.
«Andiamo al convento, la denuncia viene da là», decise Loredana.
Il monastero ancora avvolto nella nebbia era severo e grigio, gli agenti intimiditi  esitarono prima di tirare il cordone della campanella. Un fraticello aprì e si ritrasse subito:
«Oh, mio Dio! La Polizia!!!», esclamò spalancando gli occhi.
La Caputo sorrise e, cercando le parole per non agitare ulteriormente il religioso:
«Possiamo parlare con il priore?».
Il giovane frate li portò dall’abate Francesco che, quando si vide davanti gli agenti della Mobile si spaventò:
«Io non c’entro proprio niente», balbettò, «Pablito mi ha raccontato questa storia e mi sono sentito in dovere di chiamarvi».
«Ha fatto bene, padre», disse rispettosamente la Caputo, poi rivolto al ragazzo che se ne stava seduto in un angolo ancora sotto choc: « però vorrei sapere come mai ti sei inventato tutto, probabilmente vedi troppi film polizieschi», concluse.
Pablito si scosse: «Non dico bugie, è tutto vero!», gridò.
«Allora, sai cosa facciamo? Vieni con me in commissariato e magari ti viene in mente qualcosa di più….se dici la verità», propose Loredana.
«Trattatelo bene», si raccomandò il frate.
«Certamente, stia tranquillo, anche se avesse detto il falso lo rimanderemo a casa. I ragazzi sono imprevedibili!», rispose lei.
Parisi era uscito in corridoio a sgranchirsi le gambe,  seduto sulla panca, in attesa di essere convocato c’era un ragazzino con la pelle leggermente scura, lui gli lanciò un’occhiata e chiamò immediatamente la sua assistente:
«Cosa è successo all’Abbazia? ...e, cosa ci fa un bambino in commissariato?», chiese brusco.
L’agente speciale spiegò brevemente l’accaduto, il commissario l’ascoltava aggrottando le sopracciglia:
 «Fallo entrare, voglio parlargli, non bisogna mai sottovalutare i giovani, magari dice la verità».
Pablito entrò con il cuore che gli batteva a mille, si sentiva morire, aveva paura di essere messo in prigione ma, dopo che Parisi gli diede del bugiardo si ribellò:
 «Quel morto c’era, l’ho visto e l’ho quasi toccato!».
Il commissario non sapeva se credergli, dopo qualche altra domanda decise di lasciarlo andare a casa, lo vedeva troppo spaventato:
«Dimmi soltanto com’era quell’uomo per terra. Giovane o vecchio?  Poi puoi andare… se veramente c’era,  prima o poi salterà fuori», concluse bonario.
Il ragazzino descrisse il cadavere come se lo ricordava: corpulento, di mezza età, capelli radi.
 Alla fine il commissario fece un cenno e lui se andò via come un razzo.
«Strana storia», borbottò fra sé Parisi, ma gli era rimasta impressa la fermezza con la quale Pablito insisteva per farsi credere.
Il commissario Parisi  dirigeva quel posto di polizia da tanti anni, in una città di provincia era raro che succedessero fatti del genere, sapere che c’era un cadavere scomparso nel nulla gli sembrava un’assurdità.
 Ma nel pomeriggio dovette ricredersi: una signora elegante, sulla cinquantina chiese di entrare, si sedette sulla punta della sedia torcendosi le mani:
«Sono Laura Degiorgi e devo denunciare la scomparsa di mio marito, il professor Mauro Ferrari, insegnante di italiano al Liceo scientifico. Questa notte non è rientrato a casa, non è sua abitudine rimanere fuori, è uscito per incontrare un amico e non è più tornato», disse con la voce rotta dall’emozione.
Parisi l’osservò per qualche secondo senza parlare:
«Ha chiesto all’amico?», disse infine.
«Certamente….è la prima cosa che ho fatto, ma Giorgio mi ha detto di averlo lasciato verso le undici, poi di non averlo più sentito, nemmeno al telefono».
«Giorgio?», chiese il commissario.
«Sì, l’avvocato Mariani, nostro consulente finanziario», rispose lei arrossendo leggermente.
Quell’atteggiamento mise immediatamente in allarme il commissario:
«Per ora faccia la denuncia, signora, le auguro che suo marito ritrovi la strada di casa», disse congedando l’ospite, ma prima che la donna uscisse le chiese:
«Ha una foto di suo marito?».
Laura frugò nella borsa:
«Sì, l’avevo portata appunto per lasciarla a voi», disse porgendo il ritratto del marito.
Parisi diede un’occhiata e ricordò le parole di Pablito: “un po’ grasso, capelli radi e un po’ vecchio”, descrizione che coincideva con l’immagine che stava osservando.
Intanto nella mente del commissario si incrociavano tanti pensieri, l’uomo sparito poteva essere morto e questo poteva avere a che fare con.... il cadavere scomparso, ma cosa c’era dietro tutta quella faccenda? E se il professore si fosse semplicemente allontanato da casa per ragioni sue e se Pablito avesse detto una balla?
Allora il caso si sarebbe risolto da solo, ma c’era qualcosa che non quadrava, un sospetto che gli era balenato mentre la moglie del professore stava facendo la sua dichiarazione.

 (continua)
 

 

 

 

mercoledì 2 ottobre 2013

FINE " QUEL VORTICE MALEDETTO"


FINE DI  “QUEL  VORTICE MALEDETTO”

 I giorni che seguirono furono terribili per Diana, riconobbe il corpo del marito solo da un frammento di orologio al polso del cadavere carbonizzato. Cercò di nascondere la verità a Marta che era molto legata al papà, quando chiedeva di lui era costretta a mentire: “E’ in viaggio, vedrai che presto tornerà”, rispondeva. Ma per quanto avrebbe potuto reggere quella bugia? Con molta fatica Diana ricominciò a vivere, portava la bambina a scuola e il resto della giornata l’impiegava a cercare  un lavoro che le permettesse di andare avanti. Per sua fortuna lo trovò  in un ufficio legale, con un ottimo stipendio e questo la risollevò da una parte delle sue preoccupazioni. Non erano passati nemmeno tre mesi dalla scomparsa di suo marito quando ricevette una strana telefonata:
“Cara signora Savini, sono l’avvocato Ortega, ho bisogno di parlarle…può venire nel mio ufficio alle diciotto, domani sera?”, chiese una profonda voce maschile.
“Posso sapere perché?”, ribatté sorpresa la donna.
“ Non posso anticiparle nulla, ma le consiglio di venire… è nel suo interesse”. Dopo aver dato l’indirizzo l’uomo interruppe la conversazione.
 Diana scosse la testa dubbiosa: “chissà cosa vuole?, speriamo che non siano altri guai”, pensò preoccupata, “però devo vedere di cosa si tratta…”.
Il giorno dopo si recò all’appuntamento in una vecchia casa di un quartiere popolare. Salì i gradini osservando i nomi  sulle porte, al quinto piano su una targhetta di ottone, lesse “Avvocato Manuel Ortega”
Suonò e le aprì un uomo basso e grassoccio che indossava una giacca spiegazzata sopra una camicia senza cravatta,: “ Diana Savini?”, chiese in tono mellifluo, “prego, si accomodi”. Aprì l’uscio di un locale arredato sommariamente. Diana sedette davanti ad una scrivania zeppa di fogli e di libri..  L’uomo si accomodò dall’altra parte.
 “Cosa deve dirmi?”; chiese ansiosa  guardandosi intorno.
 L’avvocato strinse gli occhi e la fissò :
 “ Sa che suo marito aveva un debito con il mio studio?”, chiese sporgendosi per osservare l’effetto delle sue parole..
 Diana era impallidita: “Quanto?”.
. La cifra che quell’uomo le disse la sconvolse: “Non è possibile!…comunque, lui non c’è più”, ribatté decisa.
“Ci sei tu…e la bambina”, insinuò ancora lui passando al tu senza complimenti.
“No…la bambina non dovete toccarla….cercherò di rendervi quei soldi”; la voce di Diana era diventata un soffio.
“Ti do tempo una settimana, se non paghi …questa bella bimba ce la prendiamo noi”, disse togliendo da un cassetto una foto di Marta.
Diana si sentì morire, si alzò :
 “Aprimi la porta”, sibilò , “voglio uscire di qui”.
“Ci faremo vivi noi…e non andare alla polizia, sarebbe peggio, credimi”, affermò Ortega accompagnandola all’uscio.
Diana trascorse quella settimana cercando affannosamente del denaro, si rivolse ad amici e parenti, vendette il diamante di fidanzamento, ma riuscì a racimolare solo un terzo della somma che le era stata chiesta.
Si incontrò con Ortega in un locale pubblico . “Ho questi”, disse mettendogli in mano una busta, e non chiedermi altro, non ce la faccio….” L’uomo contò le banconote:
“ E’ un po’ poco, ma mi rendo conto che non è stato facile….ti do ancora tre giorni per saldare”, bofonchiò mentre un sorriso ironico gli stirava la bocca.
Ormai Diana non sapeva più a quale santo votarsi, arrivò la sera del terzo giorno che non aveva combinato nulla. Alla telefonata del suo persecutore dovette rispondere che non poteva dargli nemmeno un euro. La mattina dopo  accompagnò Marta a scuola e andò in ufficio, pregando che non succedesse nulla a sua figlia. Dopo il lavoro tornò a prendere la bambina con il cuore che le batteva forte; con sollievo la vide uscire serena e allegra come sempre. Si incamminarono per mano lungo il viale che percorrevano ogni giorno. Non si accorsero che una vettura nera le seguiva; erano pochi metri da casa e la strada era deserta. Diana si voltò e vide la berlina che era dietro di loro.
“Corri, Marta” gridò.
Ma non fecero in tempo ad allontanarsi che la macchina  si accostò al marciapiede: due uomini scesero e strapparono Marta dalle mani di Diana che urlò con quanto fiato aveva in gola..
 In quel preciso momento una frenata li fece sobbalzare, il commissario Alex Parisi, l’immancabile Caputo e due agenti scesero da un’auto della polizia e si gettarono sui rapitori ammanettandoli in un baleno. Tutto si era svolto così velocemente che Diana quasi non se ne rese conto.. Abbracciò la figlia ancora sotto choc  e si avvicinò a Parisi:
“Grazie…come avete saputo?”; balbettò in preda a un’intensa emozione.
Il commissario la guardò sorridendo:
 “Non ringrazi me, ringrazi lui”, disse accennando all’uomo che stava scendendo dalla vettura.
Gli occhi di Diana  diventarono immensi:  
“Rocco!”, esclamò al colmo dello stupore. Lui la strinse a sé con forza:
 “Ti amo tanto, non ti ho mai abbandonato…perdonami ancora una volta…”, le sussurrò fra i capelli., poi prese in braccio Marta che era ancora stava tremando:  “Nessuno ti farà più del male”, disse emozionato.
“Ma…il cadavere, la macchina bruciata…”, balbettò Diana.
 Parisi  intervenne: “Come vede, non era lui…era il corpo di un poveretto investito sulla strada e morto mentre suo marito stava accompagnandolo all’ospedale”, batté una mano sulla spalla di Rocco:
 “Vede questo tipo? Voleva suicidarsi…con una moglie così e una splendida bambina. Per fortuna ci ha ripensato e ha inscenato la commedia mettendo al volante l’uomo già cadavere e infilandogli al polso il suo orologio…poi ha incendiato il tutto e l’ha buttato dalla scarpata…avendo cura di farci ritrovare la targa…ingegnoso no?… Dopo, in preda ai rimorsi, è venuto a raccontarci tutto e da quel momento abbiamo messo sotto controllo la sua casa e il telefono per prendere in flagrante questa banda di delinquenti… Ortega è già al fresco!”.
“Grazie, commissario”, disse Rocco porgendo la mano all’ispettore che la strinse con vigore.. “è tutto finito, ora andiamo a casa…se possiamo ricominciare”, continuò fissando negli occhi Diana.
Lei gli sorrise e l’abbracciò in silenzio.  Marta lo tirò per la giacca:
 “Sei tornato dal viaggio papà? Dopo possiamo fare un gioco?”.
“Gioco?…”, rispose lui sorridendo, “è una parola che non conosco…”.
 Si allontanarono abbracciati seguiti dallo sguardo compiaciuto del commissario Parisi che rivolgendosi a Loredana Caputo disse brusco:
 “Cosa sono quegli occhi lucidi?...ormai dovresti esserci abituata! Forza, torniamo in commissariato, c’è un sacco di lavoro arretrato che ci aspetta”.

La Pantera della Polizia guidata dall’agente speciale sfrecciò veloce lungo le vie della città.

                                                                                                                                   FINE                     
                                          

                                                                                                                                                                                                             

 

 

 

 

 

 

 

domenica 22 settembre 2013

QUEL VORTICE MALEDETTO


 



Con i nervi tesi fino allo spasimo Rocco non staccava gli occhi dal tavolo verde. Le mani svelte del croupier smistavano le fiches, poi la roulette cominciò a girare …la pallina bianca si fermò sul numero sette. L’uomo si alzò di scatto con un gesto di stizza, era pallido e con le borse sotto gli occhi, si passò una mano sul viso sudato e si guardò intorno. Una donna truccata vistosamente stava ridendo mentre accumulava i gettoni, Rocco le lanciò uno sguardo disgustato e si allontanò con le mani in tasca. Uscì dal Casino: erano le quattro del mattino e il cielo stava schiarendo; si sedette su una panchina, aveva un macigno sullo stomaco che non accennava a scendere: “Sono rovinato…ho distrutto tutto… ”, due grosse lacrime gli scesero lungo le guance. Ripensò all’ultimo periodo della sua vita quando il demone del gioco si era impossessato di lui. Aveva cominciato per divertimento, poi un giorno vinse una somma che gli aveva fatto girare la testa e da quel momento era entrato nel vortice che l’aveva portato sempre più in fondo. La magia perversa della roulette l’aveva catturato, l’altalena della fortuna che ogni tanto gli strizzava l’occhio, ma che spesso gli voltava le spalle, era diventata una droga: non era capace di farne a meno. Così aveva prosciugato il conto in banca, ipotecato la casa e si era messo nei pasticci con una banda di strozzini che non gli lasciavano tregua. Il giorno prima il boss della banda gli aveva dato l’ultimatum: doveva a saldare il debito; ma la somma che doveva rendere era troppo alta per le sue possibilità. Si alzò a fatica e andò a prendere l’auto; mentre guidava verso casa era disperato, non sapeva come affrontare sua moglie, avrebbe preferito morire. Forse sarebbe stata la soluzione per risolvere i suoi problemi.
Entrò con cautela per non svegliare Diana e la bambina, aprì la porta della camera e si avvicinò al letto: intravide sua moglie che stava dormendo serena, i capelli biondi sparsi sul cuscino: “Povera.…non se lo merita”, pensò commosso. Si allontanò in punta di piedi, aprì un altro uscio e la luce notturna dell’angioletto sopra il lettino gli permise di osservare il visino di Marta addormentata. Aveva le gambine scoperte e lui si avvicinò per tirare su le coperte finite in fondo al letto. Il sentimento che provò lo fece star male, si intenerì fino alle lacrime…sempre cercando di non farsi sentire prese un foglio di carta e  scrisse qualche parola. Come era entrato, silenziosamente uscì. Risalì in macchina mentre stava albeggiando e si diresse sulla statale che portava al fiume, pigiando sull’acceleratore.
Aveva percorso solo qualche chilometro quando fu costretto a frenare bruscamente: in mezzo alla carreggiata c’era un grosso fagotto; si fermò a qualche centimetro dall’ingombro. Scese e vide con raccapriccio che si trattava di un uomo ferito che si lamentava debolmente: era una persona anziana, con  i capelli bianchi macchiati di sangue. Rocco  si tastò freneticamente nelle tasche in cerca del cellulare :”Devo chiamare un’ambulanza…questo poveretto è stato investito e abbandonato sull’asfalto!”. Ma per quanto cercasse, il telefonino non saltava fuori, frugò nell’abitacolo della vettura…niente. “Devo averlo lasciato sul tavolo della roulette”, si disse. Intanto il ferito si lamentava sempre più debolmente e la pozza di sangue si stava allargando, gli occhi dell’uomo adagiato per terra lo fissavano chiedendo  aiuto. “Forza, ti porto all’ospedale, vedrai che ce la faremo”.  Cercando di non fargli male lo sollevò e lo adagiò sul sedile dell’auto. Partì a tutta velocità verso il paese più vicino in cerca di un pronto soccorso. Mentre guidava notò che l’uomo adagiato sul sedile posteriore non si sentiva più. Si voltò un attimo e vide che respirava ancora:
“Devo sbrigarmi”, pensò, “ altrimenti questo non resiste per molto”.

 Diana si svegliò presto, con la mano tastò il cuscino accanto a sé e si accorse che il letto era intatto: nessuno vi aveva dormito quella notte.
Come mai Rocco non era tornato? Aveva detto che avrebbe fatto tardi per lavoro, ma non che passava la notte fuori casa. Lo chiamò , ma il cellulare squillava a vuoto. Sempre più preoccupata si recò in soggiorno: sul tavolino del salotto un foglio bianco attrasse la sua attenzione. Mentre leggeva il cuore quasi si fermò: “Addio…sono un vigliacco, perdonami. Ti prego, fai in modo che Marta  non mi dimentichi”. La donna si lasciò cadere sulla poltrona, senza forze: quelle poche  parole scritte in fretta parlavano chiaro: erano di un uomo che aveva deciso di chiudere con la vita. Scoppiò in un pianto dirotto: “Perché?…perché? …”, si chiedeva disperata.

In quell’istante nell’ufficio del commissario Alex Parisi squillò il telefono. L’uomo alzò la cornetta annoiato: si cominciava una delle tante giornate sempre piene di grane… una voce d’uomo, concitata, annunciò: “Un’automobile brucia sotto il viadotto del cavalcavia sulla statale quarantasette…”.
 “Chi parla?”, esclamò nervoso Alex, ma il suo interlocutore aveva già riagganciato. “Fanno sempre così”, brontolò il commissario, “hanno paura di esporsi”. Si riavviò i pochi capelli rimasti in un gesto abituale:
“ Caputo!” urlò , “muoviti, usciamo, vai a prendere la macchina”.
L’agente speciale Loredana Caputo si alzò dalla sedia balzando in piedi:
“Va bene commissario”, rispose , poi brontolò a voce alta per farsi sentire, “ Che modi! Non sono sorda…”.-
Parisi rimase un attimo perplesso. “ Hai ragione, chiedo scusa, ma sembra che abbiano bisogno di noi urgentemente”,
La ragazza sorrise senza farsi scorgere poi sussurrò : “ Adesso va bene”.
La macchina della polizia partì sgommando ma, quando arrivò sul posto ormai la vettura sul greto del fiume, era diventata uno scheletro accartocciato. Parisi corse giù seguito dall’agente Caputo, guardarono dentro: al volante, c’era un uomo carbonizzato .Pezzi di carrozzeria erano sparsi ovunque: “Commissario” gridò  la poliziotta, “siamo fortunati…guardi qui, la targa si è staccata…così possiamo sapere chi è il proprietario”. Il commissario brontolò qualcosa che aveva a che fare con quelli che andavano troppo veloci:
“Va bene…possiamo andare, chiamate l’ambulanza”. Si rimise in macchina e poco dopo era ancora nel suo ufficio pieno di scartoffie polverose.
 La mattinata era già passata e i succhi gastrici avevano invaso il suo stomaco vuoto, si fece portare un panino che addentò svogliatamente; stava bevendo una birra quando entrò un agente: “Ispettore, una donna vuole denunciare la scomparsa del marito, la faccio passare?”. Le antenne del buon poliziotto si misero in movimento e rispose subito: “Certo, cosa aspetti?”.
 Diana era pallida e visibilmente sconvolta,  raccontò piangendo ciò che le era accaduto in quella giornata tremenda. Il commissario non la lasciò nemmeno finire, “Scusi un momento”, disse frettolosamente.
Uscì dalla stanza: “Avete controllato la targa della macchina bruciata?”, chiese al primo che gli si presentò davanti.
 “Ecco, qui ci sono i dati”, rispose subito un poliziotto. Rientrò in ufficio e chiese  con cautela:
 “Suo marito si chiama Rocco Savini e ha una Ford  del ’2003?”
 “Sì”, rispose Diana spalancando gli occhi.
Parisi non sapeva come dirglielo: il corpo trovato nella vettura carbonizzata era presumibilmente quello di suo marito. Trovò il coraggio solo dopo averle fatto bere un bicchiere d’acqua.

(continua)